Comunità
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In pieno inverno recessivo, dimenticato il tempo in cui il marketing e non l’usura consumava i nostri abiti, dopo aver inghiottito calorie in eccesso e conosciuto un’ipocondria sociale, vediamo i limiti del mondo quantificato.
Non si poteva supporre che dopo la morte di Dio, la fine della storia e la svalorizzazione del lavoro si fermasse anche lo sviluppo perpetuo?
L’Italia al temine della notte non sarà più la stessa. Nessun Paese dopo cinque anni di recessione sistemica può resistere.
Quanto ancora si potrà andare avanti così? Continuerà a prevalere nelle nostre scelte la “volontà di impotenza”, adattandosi al peggio, accettando compromessi e mortificazioni? E tutto ciò non tanto perché non ci siano vie di scampo, ma perché è labile il senso di giustizia (ovvero etico) e il sentimento timotico (l’orgoglio di sé).
Il nuovo ordine sociale, la post-democrazia (la democrazia senza popolo), è sempre più volto ad amministrare la depressione, cioè a contenere l’instabilità e gli effetti distruttivi dell’accelerazione delle crisi o, a nostro parere, del loro carattere permanente.
Oppure, detto con semplicità, a garantire la pace sociale di fronte a quell’inesorabile slittamento verso condizioni di estesa precarietà aperte dai processi di disoccupazione di massa e di esclusione dei più dalle scelte decisive.
Mentre stiamo assistendo al riemergere della vocazione corporativa nazionale, questa volta però con una netta inflessione elitistica.
Il neo-corporativismo delle élite sembra possedere, soprattutto nell’anno a damnatio memoriae 2012, la legittimità di una emergenza tecnocratica di fronte alle convincenti ingerenze della governance internazionale del debito.
Di fronte al male nostrum e alla generale consunzione delle democrazie, sempre più prive di manutenzione concettuale, opponiamo la forza coesiva della comunità civile, oggi rappresentata dai diritti del particolare invocati anche dall’aspettativa di una razionalizzazione di tipo federalistico del nostro vivere insieme.
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