03Dec
Perché l’Etica
Anche senza dirlo non vogliamo essere invisibili, insignificanti agli occhi degli altri e soprattutto a noi stessi. Vogliamo il diritto di consistenza, lo vuole quell’impulso che è l’amor proprio.
L’attualità ci consegna al conformismo dell’identico, l’io è l’indifferenziato e il conforme paralizza il pensiero volitivo, quello che desidera e progetta. Siamo eterodiretti da media e social in combutta col consenso politico. Persino l’algoritmo della paura è un protocollo perfetto creato per scatenare a orologeria reazioni collettive, irrazionali, come il predatore che scompagina il branco, come il panico di un crack delle borse che fa perdere la testa a tutti. Paradossalmente è più facile controllare le masse che un singolo individuo, proprio perché un io prima o poi è costretto a fare i conti con la singolarità del suo destino, con la sua assoluta unicità.
Anche Battiato era alla ricerca di “un centro di gravità permanente”, un nucleo interiore che desse stabilità all’inquietudine di vivere. Ma questo non vuol dire ancora niente, sarebbe un centro vuoto che inghiotte anche il senso se non è anche un punto di equilibrio armonico col resto del mondo.
Qui ci avviciniamo al significato dell’etica, al rapporto tra l’io e l’altro, tra un sé e le altre entità che occupano il tempo di vita. Ma il rapporto deve avere una giusta proporzione.
L’etica è così la proporzione aurea di tutto l’esistente. È la ricerca di quel rapporto che salvaguarda me stesso dal perdersi nell’insignificanza, mentre riconosce la presenza essenziale dell’Altro, proprio perché lo vede come se stesso. Non ci può essere rispetto di sé senza rispetto dell’altro.
Questa simmetria evoca la più assurda e impraticabile parabola del Cristo: “Ama il tuo nemico come te stesso”. Essa allude alla casualità della vita che assegna un’appartenenza, una nascita e una identità ben prima e ben oltre la nostra volontà, per cui solo per un caso-destino mi riconosco nella veste di amico o in quella di nemico.
Nel pensiero morale trovo qualcosa che mi appartiene e mi identifica in quanto scelta personale, qualcosa che resiste all’insensatezza degli incessanti istati, al loro inesorabile consumarsi e consumarci. Si deve saper sospendere l’insensato, silenziare il rumore. Soffermarsi e respirare profondamente, sentire che si sta vivendo l’irripetibile e pretendere più vita dalla vita. Liberarsi dall’incantesimo che ci distoglie dal pensiero pensato regalandoci uno spettacolo continuo cui assistiamo a bocca aperta, e che dopo ogni The end ci fa desiderare il successivo proprio perché alla fine non ci lascia niente al di fuori del suo presente assoluto. Conta veramente solo ciò che ci cambia, tocca la nostra intimità, ci fa crescere e fare. Conta l’essenziale a cominciare dall’amore.
L’etica è parola vaghissima. Il significato va dalla convenienza personale al lusso -lusso dell’anima s’intende.
Se dopo la morte-di-Dio, proclamata con tanta arroganza, ci restasse solo la salute non saremmo altro che enti, dove non c’è posto per l’etica, un ni-ente che vive in quanto mera durata.
Senonché nel fondo del pensiero è posto quel desiderio di avere significato, appunto di non essere niente, di cui però non sappiamo nulla, c’è solo un impulso che muove e commuove ogni singolo io.
Qui inizia a dispiegarsi la sintassi etica, essa ha a che fare con la natura stessa della specie, per questo parlo di impulso o istinto, accendendo un cortocircuito tra questa e la coscienza – quella parte della natura che pensa se stessa.
La convenienza, di cui ho accennato, vuol dire fare in modo che la nostra vita abbia più dignità di una “nuda vita” tutta risolta nel bios.
In questo senso l’etica ha poco a che fare con la bontà – che forse è una grazia -, è addirittura un moto di arroganza, un opporre l’integrità della persona all’insostenibile leggerezza dell’essere.
La liberazione dall’indeterminato deve attualizzarsi nei nostri atti, stabilendo una corrispondenza tra il dire e il fare, tra la ricerca di senso e la sua verifica.
Siamo ciò che siamo solo alla prova dei fatti dinnanzi all’accadere degli eventi. L’etica è una risposta pratica.
L’incontro tra gli eventi e il sé pretende una scelta qualificante, qui la nostra stessa integrità è posta a repentaglio, ne va del rispetto per noi stessi senza il quale siamo dissolti nell’insignificanza.
A un estremo delle sfumature della ragione troviamo la vacuità, all’altro la consistenza morale. Se perdiamo quest’ultima non potremo mentirci per ritrovare il rispetto di sé. Nulla è peggio di mentire a se stessi sarebbe il livello più basso di umiliazione della propria soggettività.
Il rispetto di sé, l’amor proprio, pretende la ricerca di verità, è la verità che istituisce l’ordine tra giusto e ingiusto, tra degno e indegno.
Alla fine l’etica pare sia un lusso interiore dove il soggetto si dedica a se stesso per plasmarsi nella forma di una vera “opera d’arte”, ma la cura di sé per quanto profondamente intima non può vivere nella sua differenza separata dagli altri. L’etica è “salvarsi gli uni con gli altri”, la destinazione dell’etica è la comunità.
Intanto potremo accontentarci di trovare delle “affinità elettive” La sorte sarà benevola per una comunità se sarà governata da affinità di ordine morale come lo fu nel nostro Dopoguerra in quella dialettica delle estreme divergenze che ridiede rispetto e valore all’Italia
Da Michel Houellebecq “Annientare” – La nave di Teseo. Milano. 2022. Pag. 696 -697
… “altri uomini erano apparsi, in numero crescente; erano ridanciani e viscidi, non avevano nemmeno la relativa innocenza della scimmia, erano guidati dalla missione infernale di rosicchiare e corrodere ogni legame, di annientare ogni cosa necessaria e umana. Sfortunatamente avevano finito per raggiungere il grande pubblico, il pubblico popolare. Il pubblico colto, influenzato da una serie di pensatori che sarebbe noioso enumerare, aveva da tempo aderito al principio della decadenza, ma questo non aveva molta importanza, quello che contava davvero ormai era il grande pubblico, che a partire dai Beatles e forse da Elvis Presley era diventato il criterio di ogni convalida, un ruolo che la classe colta, avendo fallito sul piano etico come su quello estetico, ed essendosi per di più gravemente compromessa sul piano intellettuale, non era più in grado di conservare. È dato che il grande pubblico aveva acquistato una status di istanza di convalida universale, il suo programmatico svilimento rappresentava una pessima mossa, che poteva sfociare solo in un esito triste e violento”.