03
Feb

Ancora una volta i Gracchi e Catilina hanno perso. Il senato è sconfitto. È l’era dei Cesari. Sì, per capire cosa stiamo vivendo nell’oceano di informazioni, contraddittorie e relativamente vere, ci affidiamo a euristiche soggettive, a interpretazioni alle quali siamo i primi a non credere, ma segretamente, a meno di disporre di un’esuberante autostima, che però tutti vedono sovrappeso, e non è un bel vedere.
Per grazia ricevuta c’è la memoria, l’entità cognitiva che determina il nostro consistere. L’ubi consistam. Senza di essa, non esistiamo. Anche se la mente pervicacemente volesse permanere senza riconoscere il passato, galleggeremmo nell’interminabile istante, sradicati da ciò che è il sé.
D’accordo che la “sostanza”, l’“essenza” e i vari assoluti sono dismessi da tempo. Forse anche la consistenza del sé è a rischio, ma privi di essa è come fissare le nostre mani o la parete di fronte a noi. Emettiamo onde cerebrali alfa che hanno lo stesso flusso dell’ebetudo. Si dice che avvenga qualcosa di simile quando guardiamo a lungo la televisione: l’intenzionalità si spegne. «Chi più assiste meno vive».
Conoscere il passato, esserne testimoni virtuali significa appartenere al tempo umano, percepire il suo continuum, vivere un processo di identificazione mettendo in relazione il nostro tempo col passato. Molto prima della razionalità, l’inconscio cerca di scoprire negli accadimenti, in ogni punto stocastico, il tratto di un disegno significativo. Viceversa, l’indifferenziato ci destabilizza in quanto simulacro o parvenza del nulla. Concepire il possibile è già una predizione, nella presunzione di poter disporre delle scelte; anche se lo scenario è artefatto, sempre meglio che scrutare il buio. La storia stessa è predizione.
Da Tiresia all’intelligenza artificiale dei Big Data, vogliamo sapere per predire. Guardiamo le stelle, leggiamo gli output degli algoritmi per non sbagliare rotta. Le stelle e l’IA sono delle mappe, continuamente riscritte perché più sappiamo e scopriamo più siamo in grado di vedere. «Più si perfezioneranno i telescopi, più stelle ci saranno». Flaubert non dice che con la technique scopriremo più cosmo, ma nomina il verbo “essere”, ossia creare, trarre le cose dal nulla, dall’impensato. Sapere è quindi un atto divino.
«LA LUCE SIA. e la luce fu». Con delicata sensibilità anche noi possiamo “dare alla luce”, far nascere. Volgendo lo sguardo al passato scopriamo, o meglio creiamo, relazioni, ricorsi da possibili traiettorie erratiche, entanglement. Possiamo vedere veramente ciò che c’è.
L’era dei Cesari – come la chiamo – è segnata dalle ibridazioni tra iper-impresa e Stato. Ma ora, per la prima volta, l’iper-impresa non è più un’entità generica, è identificata con la persona. Vero è che già ai primordi del capitalismo le personalità fondatrici erano l’impresa stessa, ma oggi, in particolare nell’avanguardia del mondo occidentale, è ben altro. Rockefeller, Carnegie o gli Edison si sentivano vincolati solo allo spirito del liberismo e l’ibridazione con lo Stato era non solo impensabile, ma probabilmente repellente. La gloria del nome è la stessa potestà dell’impresa.
Il Rubicone è attraversato da Cesare soltanto, la Legio XIII Gemina è lo stesso Princeps. Anche gli altri due triumviri erano cesari di fatto. Così la Microsoft è Bill Gates, l’Apple è stata Jobs, Amazon è Bezos, Facebook è Zuckerberg, Tesla, xAI, X (ex-Twitter), Neuralink, SpaceX, eccetera sono Elon Musk. Alla parte rutilante degli info-stati vanno poi aggiunti i più discreti interpreti dei fondi di investimento.
Anche i rappresentanti del popolo, raccolti dal motto E(x) pluribus unum, il Senato, il Parlamento degli States, hanno i propri cesari e il proprio possibile Novus Ordo Seclorum. Naturalmente, oggi l’epos cesaristico per eccellenza è rappresentato dalla sincrasi inimmaginabile della coppia Musk e Trump. Sono l’iperstizione stessa che si compie. Nemmeno l’“accelerazionismo” di Nick Land poteva immaginare una simile apoteosi per la propria congettura. Il genio multimiliardario Musk è il modello del paradigma cesarista. La collaborazione tra settore privato e pubblico è stata evidente nella co-gestazione di imprese come Tesla, destinataria di un prestito speciale dal governo americano nel 2010, e SpaceX, che tutt’ora collabora con NASA e US Air Force. Anche Blue Origin di Jeff Bezos ha beneficiato di finanziamenti analoghi per lo sviluppo di tecnologie spaziali.
La potestà dei nuovi princeps non è più storia privata, né quell’insanabile contraddizione che ci aveva insegnato il materialismo dialettico. È una vicenda politica, anzi post-politica. Come la tredicesima legione – finanziata dal Senato della Repubblica Romana e dalle gentes patrizie – quasi tutti gli inizi delle major globali sono stati assistiti benevolmente dagli States, in particolare dalla Difesa. Scelta rivelatasi strategica, che ha inghiottito i presagi di tanta intelligenza engagée – Kenichi Ohmae, Francis Fukuyama, eccetera – di ennesime fini dello stato e della storia. Ma Tiresia è sempre cieco.
L’ibridazione delle iper-imprese con lo Stato è forse l’ultimo modo possibile per competere con il grande Oriente, e forse l’estremo atto del capitalismo post-liberale. Integrandosi con l’attività politica e ripudiando il principio del liberalismo delle democrazie parlamentari, ha inizio la spoliticizzazione della politica. L’ibridazione si gioca sia nei settori tradizionalmente privati, oggetto di implacabile concorrenza (fino alla fatale fase, forse definitiva, delle concentrazioni monopolistiche), sia in quelli propriamente pubblici, l’intoccabile interesse strategico, sinonimico della Difesa.
È una nuova narrazione, in cui gli Stati non hanno abdicato al loro potere, ma lo hanno delegato a una nuova aristocrazia globale, capace di coniugare la forza economica con l’immaginario tecnologico. I nuovi Cesari costruiscono mondi e, nel farlo, riscrivono la storia.
Imprevedibilità, ambiguità e stupore sono sentimenti delle fasi originali della storia; tanto più accese quando il climax ascendente subisce come oggi un’accelerazione spettacolare, anzi quando appare come lo spettacolo di una mutazione epocale che contagerà il resto del mondo.
Niente di che, se ne diffidiamo. Siamo gli esegeti della diffidenza, unica creatività che l’Italia si concede, dando per certo che una guerra perduta sia perduta per sempre, per cui dal futuro si può desiderare solo una “comfort zone”, come se si avesse vissuto tutta la storia e ora sia solo storia di altri. Se viceversa i vincenti vogliono stravincere ad libitum, infischiandosi del detto di Machiavelli, per convincerci dell’opportunità del Novus Ordo devono almeno saper romanticizzare e spettacolarizzare, l’era post-liberal e post-global. Del resto l’hanno già fatto benissimo con John Wayne e il Rock-and-roll.
Il monopolio del digitale – gli accessi alla comunicazione, le reti, i Big Data, le IA – non può essere più percepito come un pericolo, o un nemico da abbattere liberando la sana concorrenza, come quando le regole dello stare a tavola le dettava lo Stato, per definizione neutrale è cieco come Dike. È ormai improbabile che l’avanguardia dell’Occidente voglia ancora redimere il mondo in una catarsi globale tecnologica. L’eccezionalismo americano è spossato al suo interno da ideologie che lo contraddicono spiritualmente, simbolicamente ed economicamente: la religione woke, le cancel culture, la deculturazione ideologica, eccetera. Travasate in conflitti civili insanabili che hanno svilito la possibilità di una universalità culturale e depotenziato la comunità reale. Il conflitto tra culture è diventato conflitto interno, aprendo una finestra di opportunità a intere fasce sociali che si considerano vilipese e legittimate al risentimento attivo. Tornano in auge gli assunti di Huntington.
In questo scenario, la presunzione di una entelechia globale via democratizzazione dei mercati è ormai un impiccio del passato (visto come ne hanno approfittato in Cina). Gli altri, non solo l’irrimediabile impero del male e quello d’Oriente, non sono facilmente emendabili via comfort e altri simulacri della libertà. La cultura del mondo non è globale e per ora non c’è nessuna universalità che possa eccedere le culturalità locali.
Oggi gli States stanno allevando il grande monopolio nazionale cogestito in una impura relazione. Ma ci si potrà sempre domandare con i cinici, cos’è la purezza?
Ivan Rizzi Presidente onorario IASSP
Trackbacks and pingbacks
No trackback or pingback available for this article.
Per qualsiasi domanda, compila il form
[contact_form name="contact-form"]
Leave a reply