13
Feb

Definizione di Balcani: quadrante geopolitico nel quale l’Italia è direttamente coinvolta con il suo sistema militare da trentacinque anni consecutivi. I Balcani sono cosa nostra. Non esiste nella storia nessun altro quadrante strategico nel quale l’Italia sia stata presente militarmente per così tanto tempo. Dai primi interventi in Albania nel 1991 a oggi, la difesa italiana ha trovato nella sponda Est dell’Adriatico la sua raison d’être. Dopo il crollo del bipolarismo e in seguito alle crisi sociopolitiche della Jugoslavia, Roma ha investito cospicue risorse nella stabilità dei Balcani per garantire allo strumento militare una nuova missione legittimante e al contempo accrescere il proprio prestigio internazionale. Purtroppo, dopo decine di morti, feriti e miliardi spesi per partecipare a missioni internazionali e mantenere in equilibrio la fragile regione, i motivi della nostra presenza in loco sono rimasti i medesimi di trentacinque anni fa.
Ai risultati militari degni di profondo rispetto non ha mai fatto seguito una riflessione strategica sull’importanza geopolitica della regione per l’Italia. Centinaia di pubblicazioni e conferenze organizzate nei decenni da ministeri, organizzazioni non governative, fondazioni e media sul tema dei Balcani non hanno mai portato la classe dirigente a prendere coscienza dell’importanza vitale che potrebbe avere sulla nostra credibilità internazionale un approccio sistemico verso una regione da sempre vista come criptica e problematica.
I Balcani sono apportatori stabili d’instabilità, ma perché nessuno pare seriamente intenzionato a comprenderli, Italia in primis. La curva costi-benefici dell’interesse nazionale è negativa. L’investimento italiano non ha portato guadagni proporzionati in termini politici ed economici. La leva della difesa non ha proiettato l’Italia su una dimensione politica superiore e il quadro della nostra profondità strategica è rimasto relativamente inefficace. Come sempre siamo riusciti a garantirci un posto al tavolo della diplomazia e nei fori costituiti nel tempo per gestire lo spazio compreso tra il confine di Trieste e le propaggini montuose della Macedonia, ma mai siamo riusciti a impostare una leadership visionaria o relazioni bilaterali strategicamente determinanti.
Altri paesi, come la Germania, non comprendono a fondo la regione, ma con investimenti assai minori ottengono dagli anni Novanta risultati commerciali e geopolitici superiori ai nostri. Nelle riunioni a porte chiuse i rappresentanti dei Balcani occidentali ci guardano esterrefatti e perplessi nel constatare che dietro la nostra squisita cortesia diplomatica, ai loro occhi coordinata con un ingente investimento finanziario e militare, non si celi mai una richiesta di contropartita.
Giacché discendenti della tradizione politica bizantina, i governi balcanici sono abituati a mercanteggiare favori o a eseguire ordini consci del loro perpetuo status di province. Si stupiscono che gli unici a non seguire l’approccio del do ut des siano i diretti discendenti della Roma dei Cesari. Curare le relazioni politiche o economiche solo sulla base della cortesia istituzionale dalle parti dell’ex Jugoslavia è ritenuta prova di debolezza sistemica. Accompagnare le grandi potenze ai vari tavoli negoziali senza formulare pretese o richieste di vantaggi è percepito quale prova di poca credibilità. Fino a poco tempo fa l’Italia è riuscita a proiettarsi con una certa profondità solo nei confronti dell’Albania, mentre il resto della regione è stata gestita in uno schema d’ordinaria amministrazione diplomatica, in totale disconnessione con lo sforzo militare o gli investimenti degli imprenditori italiani, e con sommo rammarico di non pochi ambasciatori che negli anni si sono prodigati per far cambiare marcia alla Farnesina e al governo.
L’impegno profuso dalla Difesa, pur in mancanza di una visione strategica nazionale, ha permesso il mantenimento della stabilità e della pace. Ma, com’era uso dire il cancelliere Metternich, stabilità non significa immobilità. In una regione di conflitti congelati, tutt’altro che risolti, la stabilità può essere garantita solo da una continua ricerca dell’equilibrio e di visione del futuro. Bisogna inventare soluzioni che portino accordi «definitivi», seppur in senso balcanico: accordi che soddisfino cioè le minime richieste comuni per una convivenza pluridecennale tra etnie diverse. Prima di proporre grandi soluzioni si devono ottenere i risultati minimi, a oggi lontani. Prima di salvare i Balcani con l’economia, il benessere, la transizione energetica, il digitale e altre amenità «occidentali» si deve iniziare dall’antropologia. Gli schemi mentali regionali sono diversi da quelli delle élite tecnocratiche di Bruxelles e di questo bisogna farsi una ragione.
Tito, per tenere insieme popoli che sapeva diversi e confliggenti, si inventò il collante comunista, la filosofia della fratellanza e dell’unità. Oggi l’unica filosofia capace sinceramente d’attrarre tutte le genti dei Balcani occidentali è l’Unione Europea. È l’unica visione politica sulla quale i dirigenti e i popoli della zona concordano e che desiderano perseguire. Soprattutto, è l’unica soluzione capace di riportare nei Balcani occidentali milioni di cittadini scappati da povertà e corruzione. Il loro ritorno potrebbe interrompere la spirale nazionalista usata dall’Ue come scusa per ritardare l’allargamento. La continua emigrazione è lo strumento di cui si avvantaggiano le classi dirigenti balcaniche per garantirsi il controllo del potere.
È più facile manipolare chi è già convinto o i pochi critici che rimangono. La Bosnia ed Erzegovina ne è la cartina di tornasole. Protettorato internazionale controllato da un Alto rappresentante, fondato su un trattato internazionale, ha avuto quattordici primi ministri, centinaia di ministri e decine di parlamenti, mentre la sua popolazione negli ultimi trent’anni si è quasi dimezzata: dai 4,5 milioni d’epoca jugoslava ai circa 2,5 milioni stimati oggi. Sono cittadini di un paese meraviglioso che però si «mantiene stabile e in pace» solamente grazie ai continui flussi di aiuti finanziari internazionali che foraggiano la corruzione istituzionale e il clientelismo politico 1. Se si staccasse la spina degli aiuti esteri il paese collasserebbe sul peso delle proprie contraddizioni e dell’inefficienza istituzionale. Secondo le analisi di Moody’s, la Bosnia ed Erzegovina ha un’economia di transizione caratterizzata da limitate riforme di mercato e pesantemente dipendente dall’esportazione di metalli e dalle rimesse della diaspora
Nel quadro di una bilancia commerciale negativa, l’Italia è il secondo partner economico sul versante importazioni. Il primo è la Germania. Ma la Bosnia ed Erzegovina è un conflitto congelato tra parti costrette nel 1995 a firmare una tregua, quella di Dayton, che in verità nessuno voleva. Se riesplodesse, perché la comunità internazionale è incapace di trovare una soluzione «definitiva», la Germania non ne risentirebbe direttamente. Tra Monaco di Baviera e Biha vi sono diversi Stati cuscinetto. Tutt’altro discorso partendo da Trieste: se per la Germania i Balcani, come l’Europa centrale, rappresentano il naturale spazio di espansione geoeconomica, per noi sono giardino di casa. In caso di collasso della Bosnia ed Erzegovina il conflitto coinvolgerebbe anche i vicini più prossimi e ci ritroveremmo con una nuova guerra alle porte, se non direttamente nell’Ue. Politicamente scorretto scriverlo, doveroso ricordarlo.
Stralcio dell’articolo di Laris Gaiser, professore di studi sulla sicurezza, membro dell’ITSTIME presso l’Università Cattolica di Milano e relatore dei progetti di formazione Iassp, pubblicato su Limes
Trackbacks and pingbacks
No trackback or pingback available for this article.
Per qualsiasi domanda, compila il form
[contact_form name="contact-form"]
Leave a reply