21
Jan

Nell’ultimo quindicennio si è parlato molto di crisi della democrazia e in particolare delle democrazie liberali occidentali. In questo scorcio di tempo avviene nel mondo un profondo cambiamento di scenario: politico, culturale, economico. Con la caduta del muro di Berlino e il dissolversi dell’Unione Sovietica si era diffusa la convinzione che il modello che coniugava democrazia e mercato fosse ormai universalmente e saldamente vincente. Tanto che un autorevole politologo, Francis Fukuyama, arrivò a parlare di «fine della storia». Un ventennio dopo la situazione muta: la grande recessione del 2008, in diversi casi drammatica, segna un profondo cambiamento. E cioè il fatto che la globalizzazione, derivante proprio da quel modificarsi dell’assetto mondiale della fine degli Anni 80 – che appare allora governato in maniera unilaterale dal modello statunitense – si trasformi in un assetto assai più complesso, con Paesi non democratici che crescono e spesso arrivano a posizioni rilevanti, quando non di dominio, dei mercati. Insomma, in generale la democrazia non appare più l’unica portatrice di prosperità e benessere.
Anzi, la crisi del 2008 scopre drammaticamente il crescere delle diseguaglianze che la globalizzazione ha portato con sé. E l’eccesso di potere della finanza nonché la concentrazione di risorse in alcune aziende come le “big tech” che diventano tali da essere soggetti politicamente rilevanti. Accanto a ciò il crescere delle relazioni virtuali prodotto dai social network, la velocità delle comunicazioni, e l’obbligo di reagire in tempi brevissimi a ciò che accade (di fronte a qualunque avvenimento di rilievo ognuno di noi si aspetta in pochi minuti un post o un tweet del politico di turno), fa sì che i rituali della democrazia – che mirano a costruire consensi sulle scelte da prendere, che tendono a difendere le minoranze coinvolgendole nelle scelte – appaiano sempre più obsoleti. Al prevalere dell’immediato in senso temporale (l’hic et nunc) e relazionale (il “non mediato”, la relazione diretta, l’”uno vale uno”), cresce progressivamente una certa “stanchezza” per la democrazia. E le indagini di Ipsos, ma anche il recente rapporto Censis 2024, lo confermano. La larghissima maggioranza degli italiani ritiene infatti che le democrazie liberali non funzionino.
Astensionismi, l’Europa si è stancata della democrazia?
L’astensionismo crescente (nel nostro Paese, per la prima volta in assoluto, alle elezioni Europee dello scorso anno si è recata alle urne meno della metà degli aventi diritto) è considerato un segnale di questo distacco, di questa stanchezza. È sicuramente così, anche se va considerato che ci sono diversi tipi di astensionismo, non tutti riconducibili a questo atteggiamento. L’astensionismo volontario può dipendere da almeno tre fattori: innanzitutto le precarie condizioni economiche e la marginalità sociale delle persone che versano in queste condizioni. Quindi il pronostico del risultato elettorale: se sono convinto che il mio partito o il mio leader perderanno, sarò molto meno motivato a votare. Infine, lo abbiamo già accennato parlando della sfiducia nella democrazia, la crescente distanza di molti cittadini dalla politica: quest’ultima, infatti, rappresenta sempre più un mero frammento dell’identità individuale, a differenza dal passato quando per la maggior parte delle persone era il tratto identitario prevalente. E in Italia dobbiamo fare i conti anche con la ragguardevole dimensione dell’astensionismo involontario, rappresentato dalle persone che hanno difficoltà di mobilità (2,8 milioni di elettori di oltre 65 anni con gravi difficoltà di movimento) e da coloro che per ragioni di lavoro o di studio nel giorno del voto si trovano lontani dal comune di residenza (4,9 milioni di elettori). È un problema destinato ad aumentare – tenuto conto delle tendenze demografiche (aumento della componente anziana sul totale degli elettori) nonché delle dinamiche sociali che da tempo evidenziano una crescente mobilità dei cittadini – ma sul quale teoricamente si potrebbe intervenire per attenuarne la portata, per esempio con il voto per posta o elettronico.
Questo sembra essere il quadro generale in cui si inserisce la nostra riflessione sull’astensionismo a livello europeo. Abbiamo preso in considerazione la mancata partecipazione in otto Paesi europei: Regno Unito, Spagna, Francia, Belgio, Svezia, Croazia, Polonia e naturalmente Italia. Per tutti abbiamo considerato il voto in elezioni comparabili, cioè alle elezioni politiche; quindi, ad esempio, per la Francia si sono tenute in considerazione le elezioni legislative e non le elezioni presidenziali. Si tratta di Paesi in cui Ipsos dispone della profilazione degli astensionisti, consentendo una lettura comparativa. Sono presenti alcuni dei grandi Paesi, tra cui due dei fondatori dell’Ue – Francia e Italia –, il Regno Unito, che dall’Unione europea è recentemente uscito, paesi del Nord, dell’Est, e uno di recentissima adesione come la Croazia. Insomma, un ventaglio piuttosto esteso, per quanto non del tutto esaustivo del panorama europeo.
I livelli di astensionismo sono molto differenziati: il più basso è in Belgio dove, alle ultime elezioni, non ha partecipato al voto l’11,6% degli aventi diritto. Bisogna considerare che, per quanto le sanzioni previste non vengano davvero applicate, in Belgio il voto è obbligatorio. Segue la Svezia con un’astensione al 15,8%, Paese che storicamente partecipa, ma in cui ci sono anche accorgimenti per favorire il voto (ad esempio chi non è in grado di recarsi fisicamente ai seggi può, facendo domanda, votare per corrispondenza). Abbiamo poi due stati con un tasso di astensione alle ultime politiche inferiore al 30%: la Polonia al 25,6% e la Spagna al 29,6%. Gli altri quattro considerati sono tutti sopra al 30%: la Francia al 33,3%, il Regno Unito al 33,9%, la Croazia al 38,1% e da ultima l’Italia con il livello (drammatico) del 39,3%.
Estratto dell’articolo di Nando Pagnoncelli, sondaggista, amministratore delegato di IPSOS Italia e relatore dei progetti di formazione Iassp
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