12
Dec
“Ci vuole molto di più di un cambio alla presidenza degli Stati Uniti per plasmare una vera unità europea”, dice a InsideOver Forchielli, economista e Managing Partner di Mindful Capital Partners.
“L’Europa dovrebbe, a prescindere, reagire all’attuale situazione globale serrando le righe. Ma alla prova dei fatti questo non succede, e non sarà Trump ad accelerarlo”. Ad oggi, ragiona lo studioso, “forse solo una guerra avrebbe lo stesso potere dirompente che ha avuto la pandemia di Covid-19 a forzare un minimo di convergenza su dossier comuni”. Ma, è la sua visione, “strumenti come il debito comune vedono l’aperta ostilità della Germania”, in cui l’imminente fine del governo di Olaf Scholz lascia presagire il rilancio dei falchi rigoristi, “e di esercito comune europeo mi sembra non se ne parli proprio”.
Insomma, scenari che secondo Forchielli non si verificheranno “perché in Europa non c’è unità di intenti rispetto a Trump, basti vedere all’entusiasmo con cui ha accolto la sua vittoria Viktor Orban” e “nonostante il fatto che Trump potrebbe danneggiare lo schema consolidato dei rapporti euro-atlantici preferendo altri interlocutori, come Russia e Israele, all’Ue“.
Dazi, inflazione, classe media
Una situazione, quella indotta dal Trump-bis, che per Forchielli si inserisce nel quadro più generico della “destrutturazione del sistema globale che il ritorno di Trump imporrà. Temo un allontanamento europeo dall’America”, sottolinea l’economista e manager, “ma soprattutto una crisi della globalizzazione”.
Forchielli ha profondi dubbi sull’efficacia dell’agenda economica che Trump ha proposto in campagna elettorale: “ancor più che nella sua prima campagna elettorale vittoriosa, Trump propone un’agenda politica fondata sul combinato disposto tra aumento dei dazi e tagli delle tasse, soprattutto ai redditi superiori. La ricetta perfetta per fare esplodere il debito pubblico americano, già a rischio di andar fuori controllo, e creare una fiammata inflazionistica“.
Questi scenari, secondo Forchielli, “pongono la tenuta della proposta di Trump a rischio, anche per una contraddizione di fondo: il presidente eletto”, nota l’economista e docente al Master in International Business dell’Università Cattolica di Milano, “è stato eletto sulla spinta del consenso di coloro che meno avrebbero da guadagnare dall’applicazione delle sue politiche, ovvero gli uomini e le donne della classe media lavoratrice”.
“Questa è una dote da mago di Trump”, ironizza Forchielli, “che riesce solo a lui”, ma più in generale quel che l’economista e manager pone in evidenza è un trend complesso sull’impatto potenziale delle politiche trumpiane sull’economia non solo globale ma anche americana. “Politiche inflazionistiche spingerebbero una nuova stretta monetaria, ma forse quel che sfugge a molti commentatori è che la misura economicamente più rischiosa è quella delle politiche migratorie”, ragiona Forchielli. Che ricorda come “ad oggi l’immigrazione di qualità continua a essere un fattore chiave di crescita economica negli Stati Uniti”.
L’agenda sull’immigrazione di Trump
Le statistiche della Federal Reserve e del Bureau for Labour Statistics mostrano da tempo come negli Usa si stia verificando, a causa dell’invecchiamento della loro popolazione, un progressivo calo dell’occupazione tra i lavoratori nati nel Paese, compensato dal numero di lavoratori stranieri impiegati sempre crescente. Dati che nel 2023-2024, secondo le stime di agosto, su dodici mesi si sono pressoché equivalsi: -1,3 milioni di impiegati nativi, +1,2 milioni di stranieri negli Usa.
“L’immigrazione è l’unica garanzia contro il declino demografico del Paese, controlla l’inflazione, garantisce forza lavoro a buon mercato”, ricorda Forchielli, e il presidente della Fed Jay Powell “non ha mancato di sottolinearlo. Dai cantieri all’accademia, dai bidelli ai Ceo della Silicon Valley, gli immigrati sono decisivi per settori e branche professionali lungo l’intera catena del valore dell’economia americana”, ragiona l’economista che conosce da vicino, risiedendo abitualmente a Boston, il sistema Usa. “Due nomi per tutti”, ricorda Forchielli: “Jen-Hsun Huang, Ceo di Nvidia, è di origine taiwanese, Satya Nadella, collega di Microsoft, è indiano. Entrambi incarnano quella capacità di ascesa sociale che ha reso l’America la terra delle opportunità” e che Trump “rischia di depotenziare, non tanto per la sua posizione sull’immigrazione irregolare quanto, soprattutto, per il messaggio che quotidianamente manda di un’America pronta a rialzare frontiere e muri”. Anche nei confronti di chi ha contribuito al suo successo nel mondo.
Intervista di Andrea Muratore pubblicata su InsideOver
Trackbacks and pingbacks
No trackback or pingback available for this article.
Per qualsiasi domanda, compila il form
[contact_form name="contact-form"]
Leave a reply