19
Nov
La politica commerciale degli Usa sarà il cavallo di battaglia di Donald Trump. È questo, unitamente al problema dell’immigrazione e dell’aborto, il cuore essenziale del cambiamento che il nuovo gruppo dell’establishment Usa attorno a lui raccolto vuole realizzare.
Riflettiamo in una prospettiva di lungo periodo e tutto ci apparirà più convincente. Gli Usa hanno ricostruito il mondo dopo la Seconda guerra mondiale non in base ai propri immediati interessi, come alcuni superficialmente affermano, ma nella prospettiva della guerra civile europea che dopo la vittoria contro il nazifascismo europeo e asiatico diveniva ancora più dura. Il problema era l’Urss e combatterla a ogni costo per difendere l’Occidente e i suoi valori. Gli Usa scelsero il commercio mondiale come principale arma strategica: l’Europa doveva divenire l’antemurale allo stalinismo grazie alla sua crescita economica da cui sarebbe (così si credeva) scaturita un’impetuosa crescita democratica senza limiti, che avrebbe vinto la guerra civile contro l’Urss anche sul piano delle idee e quindi dell’opinione pubblica.
Cosa voleva significare tutto ciò? In primo luogo, doveva rendere più coesa l’alleanza militare ed economica da cui sarebbe discesa l’unità politica occidentale. Il commercio internazionale fondato su una chiara asimmetria era l’asse della nuova politica internazionale. Asimmetrico perché permetteva agli alleati occidentali e asiatici degli Usa di esportare senza limite alcuno nell’area nordamericana e perché questa politica commerciale non chiedeva agli alleati alcuna controprestazione. Del resto, a riprova di ciò l’Unione Europea si costruì passo passo come Zollverein (“unione doganale”), in un’aerea continentale prima con basse poi con nessuna tariffa daziaria, così da favorire la libera circolazione delle merci all’interno dell’Unione, ma nel contempo erigendo continentalmente un muro protezionistico impressionante che creò e crea non pochi problemi alle produzioni agricole e manifatturiere non europee che dal mondo volevano dirigersi verso i mercati europei fortemente protetti.
L’Europa poteva, in questo modo, forte dei guadagni realizzati con l’esportazione, creare un sistema di welfare su cui costruire un consenso e una coesione sociale essenziale per fronteggiare la minaccia dell’Urss e dei suoi partiti comunisti, forti in primo luogo in Italia e in Francia. Quest’ultima era sino due decenni orsono una potenza imperiale con forti interessi africani di grande peso strategico e con continue pulsioni anti-Usa. Mentre l’Italia svolgeva nel Mediterraneo un ruolo chiave diretto a condizionare la presenza comunista in Medio Oriente. Ruolo che svolse con intermittenza e con molte debolezze per via della politica filo-palestinese che sino al Governo Renzi sempre ha caratterizzato in molteplici modi la politica estera mediterranea dell’Italia.
Oggi questa politica deve mutare, ma, visti gli errori compiuti negli anni passati dall’aggressività Usa, che ha scatenato i furori imperialistici della nuova oligarchia putiniana, ancora in guisa anti-russa. Al comunismo si è sostituita la sola politica di potenza e la contraddizione inter-imperialistica. La Germania era, sino a oggi e all’avvento delle sanzioni Usa e Ue contro la Russia, la potenza continentale che più ha tratto vantaggio dal commercio asimmetrico per la sua eccezionale potenza di fuoco nel settore delle esportazioni a livello mondiale.
Quello che valeva e vale per l’Europa valeva e vale per gli alleati asiatici più importanti degli Usa, ossia il Giappone e la Tailandia, che esportano i loro prodotti negli Usa, ma mantenevano e mantengono rigide misure protezionistiche rispetto alle loro frontiere. I contadini del Mississippi non potevano esportare i loro prodotti in Giappone e in Europa, mentre le auto giapponesi invadevano invece il mercato nordamericano assieme a quelle tedesche, sradicando in tal modo posti di lavoro e gettando nella disoccupazione i salariati e gli operai nordamericani, che, come sappiamo, costituiscono, con gli impiegati pubblici, il cuore delle cosiddette classi medie Usa.
Tutto questo aveva e ha le sue arterie finanziarie: si pagava e si paga in dollari e questi dollari che invadevano e invadono i mercati finanziari non-Usa ritornano nel Paese di origine reinvestiti dagli esportatori europei e asiatici nel sistema finanziario più redditizio al mondo con quello del Regno Unito, ossia Wall Street, operando sul debito e sul sistema borsistico. Ma se da una parte questa giostra monetaria ha rifinanziato e rifinanzia senza sosta il debito Usa, dall’altro alto ha de-industrializzato e de-industrializza gli Usa con una forza e una rapidità impressionante che nessuno aveva previsto, creando quella disuguaglianza nei redditi e nei sistemi di status che è stata tanto studiata da un pugno di accademici, quanto vissuta da milioni di persone che con Trump si sono messe in marcia nella partecipazione politica ed elettorale in una misura e in una forma che non era mai successa prima.
C’erano tutti i presupposti: mancava la scintilla che accendesse il fuoco nella prateria segnando il ritorno del populismo nordamericano così come si era già manifestato già nel Populist Party che nacque dalle ceneri del Greenback-Labor Party di fine Ottocento e che nel 1911 conquistò l’elezione diretta dei senatori, sancendo la fine del Senato come “club dei milionari”. Una vena che giunse al suo culmine con il vicepresidente Usa Henry Wallace, il quale entrò in rotta di collisione con il presidente Truman.
È una lunga storia che con Trump è ritornata a scuotere dalle fondamenta il sistema delle élites del potere nordamericano, con conseguenze che sono per ora imprevedibili, ma che vanno nel senso di chiudere definitivamente l’era della guerra civile europea e di aprirne un’altra, concedendo alla Russia la Crimea e il Donbass. Trump richiede una sorta di risarcimento nei confronti degli Usa da parte dei Paesi ch’essi hanno sopportato nel periodo della cosiddetta Guerra fredda e che ora non possono più sostenere pena una crisi che potrebbe essere profondissima. La Guerra fredda continua con le guerre locali non nucleari: continua…
Da questa crisi non uscirà vittoriosa come dovrebbe l’Europa, prostrata invece dalla politica commerciale tedesca, ma potrebbe uscirne con poche perdite la Cina.
Estratto dell’articolo di Giulio Sapelli, Docente, economista e relatore dei progetti Iassp
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