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Nov
L’intelligenza artificiale (IA) ci impone, con vigoria, la domanda fondamentale e ineludibile già sollevata da Günther Anders: il “dislivello prometeico” tra l’uomo e i suoi prodotti tecnici si è fatto a tal punto radicale che ormai l’uomo stesso risulta non solo “antiquato”, come credeva Anders, ma direttamente “sostituibile”? L’evo delle inquietudini globali e della hölderliniana “notte del mondo” (Weltnacht) che si fa sconfinata fa un gran parlare della “sostituzione etnica” e trascura fatalmente la questione della “sostituzione tecnica”: più che da uomini che provengono da lontano, l’uomo occidentale e, forse, l’uomo tout court rischiano di essere sostituti, in un futuro nemmeno troppo remoto, dai prodotti della tecnica, di cui l’IA sembra il più evoluto e rischioso.
Per la prima volta, la dialettica hegeliana di servo e signore non riguarda più categorie di esseri umani nei loro rapporti asimmetrici (proletari e borghesi, occidentali e orientali, uomini e donne, ecc.), ma l’umanità unitariamente intesa, da una parte, e la tecnica, dall’altra: la prima, ça va sans dire, in posizione di inedito servo e la seconda nella postura del nuovo signore, secondo una modalità che a tratti ricorda gli scenari distopici di Matrix. Il transumanesimo stesso, di cui le élites cosmopolitiche e tecnofile, unitamente ai loro ideologici di riferimento (un nome su tutti: Harari), celebrano il progresso de claritate in claritatem, sembra già potersi intendere, hegelianamente, come un’aggressione – la più radicale – del nuovo signore ai danni del neo-servo e, heideggerianamente, come il compimento dell’esproprio della stessa vita umana a opera del Gestell.
A giusta distanza dalla tecnofilia ingenua e ideologicamente non neutra di chi magnifica l’intelligenza artificiale come il nuovo Graal della scienza e dalla tecnofobia compulsiva dei luddisti 2.0, che vorrebbero incendiare le macchina digitali, devono collocarsi la riflessione filosofica e il pensiero pensante: nec ridere, nec lugere neque detestari sed intelligere, se volessimo esprimerci con le parole del Trattato politico di Spinoza. Il primo aspetto che, a giudizio di chi scrive, merita di essere sottolineato è che, propriamente, l’IA non pensa, ma solo calcola (peraltro infinitamente meglio dell’animale razionale che dunque siamo): non pone la Grundfrage sull’essere, né quella su Dio, né, tanto meno, si interroga su di sé e sui propri limiti, sui propri pericoli e sulle proprie possibilità.
È noto, del resto, che la migliore filosofia del Novecento, da Heidegger a Severino, da Anders ad Adorno, ha adombrato l’intrinseca illimitatezza acefala dell’impianto tecnoscientifico. Come mostrato da Severino, se la tecnica è condizione per l’attuazione di qualsivoglia fine, ne discende che non ostacolare il progresso e lo sviluppo della tecnica diviene il vero fine ultimo, in assenza del quale nessun altro può attuarsi. Ancora con la sintassi di Severino, con il tramonto della verità resta in campo solo la tecnica, vale a dire lo spazio aperto di forze del divenire il cui scontro è deciso in ultima istanza dalla loro potenza e non certo dalla loro verità. Oltre a ciò, l’impianto tecnocapitalistico riduce il mondo ai limiti della ragione calcolante, cosicché ciò che non può essere calcolato, misurato, posseduto e manipolato è, eo ipso, posto come non esistente. L’annichilimento di ogni tabù, di ogni legge e di ogni limite pone in essere il nuovo tabù della vita che basta a se stessa.
Nihil novi sub sole, in fondo: è, semmai, il compimento in forma parossistica e potenzialmente distruttiva della stessa logica tecno-scientifica che innerva il moderno. La scienza, oltre a presupporre la riduzione dell’essente a “fondo” – il Bestand di cui scrive Heidegger – quantitativo calcolabile e misurabile, impone – in ciò riconfermando l’abbandono dell’essere e del pensiero meditante – un pensare calcolante e anticipante, previdente e provvidente, pianificante e predisponente, precostituente e organizzante, in modo che l’accadere dell’ente sia in accordo con quanto era desiderato e ambito dalla soggettività stessa e dalla sua volontà di potenza. Con Bacone, scientia est potentia. La ragione scientifica è ab intrinseco non contemplativa, ma produttiva: per ciò, essa procede di conserva con la tecnica, che ne è, per così dire, la forma stessa.
La scienza che rappresenta la natura come oggetto e la tecnica che la produce e la dispone come fondo illimitatamente disponibile, trovano il loro fondamento nel Gestell, nell’impianto impositivo, che provoca ogni rappresentazione e ogni produzione e che è, insieme, per dirla ancora con Heidegger, Geschick e Gefahr, “destino” e “pericolo”. Ad agitarsi nell’essenza della moderna scienza è già la tecnica come volontà di dominio dell’ente, vuoi anche la “volontà di volontà” che “costringe l’umanità nell’incapacità di meditare (Besinnungslosigkeit)”, inducendola unicamente a calcolare e a pianificare.
Per questo, come suggerito da Heidegger in maniera provocatoria, la scienza denkt nicht, “non pensa”, e induce ad abbandonare ogni forma di spirito critico che permetta di prendere posizione rispetto al proprio mondo. La scienza, in altri termini, nell’atto stesso con cui promuove il “pensiero calcolante”, neutralizza il “pensiero meditante”. Ed è ciò che caratterizza, analogamente, l’IA come calcolo privo di pensiero. Fondamentale, sotto questo riguardo, risulta la distinzione heideggeriana tra “il pensiero calcolante” (das rechnende Denken) e “il pensiero meditante” (das besinnliche Denken). Il primo, in coerenza con il modus operandi della tecno-scienza moderna, riduce l’essente a quantità calcolabile, rivelandosi in ciò il compimento ideologico della tecnica e dell’“oblio dell’essere” (Seinsvergessenheit).
Il secondo, invece, coincide con il pensare filosofico, che interroga il senso dell’essere interpretandolo, secondo il grande tema già al centro di Sein und Zeit (il Verstehen, il “comprendere” come tratto fondamentale del Dasein, dell’“Esserci”). La ripresa del rechnendes Denken, del “pensiero calcolante”, nel tempo della notte del mondo può, allora, costituire una possibilità di reazione rispetto alle logiche del Gestell, già solo nel senso di una sospensione del fare febbrile di cui esso si alimenta, in favore del meditare.
È in quest’orizzonte che si comprende in che senso, nel testo sulla Gelassenheit, Heidegger insista con enfasi sull’“assenza di pensiero” (Gedankenlosigkeit) e sulla manca del besinnliches Denken, del “pensiero meditante”, come cifra del mondo signoreggiato dalla tecnica e a maggior ragione – aggiungiamo noi – dell’IA: “l’uomo del nostro tempo è in fuga davanti al pensiero”, dacché preferisce consegnarsi ciecamente e in maniera irriflessa alle logiche del calcolo privo di spirito critico”.
Alla luce di quanto siamo venuti sostenendo sulla scia di Heidegger, a partire dalla svolta cartesiana (la verità come certezza dell’ego che si assicura il mondo obiettivo), sia pure lungo un tragitto niente affatto esente da deviazioni e da battute d’arresto, viene prendendo forma quella visione utilitaristica che, incardinata sull’oblio dell’essere, è sottesa alla scienza moderna e che rivela, se esplorata profondamente, un’essenza intimamente tecnica.
La scienza moderna e la tecnica si muovono, allora, nell’orizzonte della Seinsvergessenheit e condividono lo smarrimento della verità come come “svelamento” (cioè come non ascosità, avente il suo locus originario non nella proposizione, ma nell’essere), e la sua ritraduzione nei termini della “correttezza”, e della Richtigkeit, dell’“esattezza” come corretta rappresentazione dell’essere pensato come presenza.
Secondo la ricostruzione al centro del Nichilismo europeo e del Nietzsche, a partire da Cartesio la filosofia diventa fisica e, da lì, tecnica, producendo una sorta di “metafisica-fisica-tecnica”, ossia un processo con cui la metafisca e la fisica trapassano in tecnica planetaria. Così, ancora, nei Seminari:
“La bomba atomica è già esplosa da tempo; cioè nell’istante in cui l’uomo è entrato in rivolta nei confronti dell’essere e ha posto lui, da sé, l’essere, facendone l’oggetto del proprio rappresentare. Questo è accaduto da Descartes in poi. Da Descartes in poi, sapendo si attua un rappresentare l’ente come oggetto da parte di un soggetto. questa provocazione della natura come oggetto caratterizza l’atteggiamento fondamentale della tecnica, e su di esso poggia tutta la scienza moderna”.
Il “calcolato valore commerciale” si impadronisce di ogni ente, in coerenza con l’estensione planetaria del mercato come prodotto della tecnica e di quella “volontà di volontà” (Wille zum Willen) che, variamente presente lungo l’arco dell’intera vicenda della metafisica occidentale, si compie nel Gestell, nell’“impianto impositivo”. A trionfare è, ora, il pensiero calcolante che “mercanteggia” nell’essenza di ogni cosa ridotta a quantità misurabile e a ente sfruttabile, neutralizzando ogni forma autentica di pensiero pensante, ossia di quel meditare che non è calcolare, né computare, ma è ciò che – così nell’Essenza del linguaggio – “traccia solchi nel campo dell’Essere”, come quelli tracciati dal contadino nel campo che egli non ha creato e che da lui non dipende.
Riappropriarsi del pensiero pensante, ossia di una capacità di meditare più profonda di quella superficiale e meramente strumentale della scienza, già da sempre organica alle logiche della tecnica, costituisce, per Heidegger, la prima mossa da compiere, per mettere in discussione il Gestell ormai avvertito come un mondo naturale o, in maniera complementare, come un destino intrascendibile. Ed è, a nostro giudizio, la via privilegiata per pensare il nostro rapporto con l’IA, nel tentativo di elaborare un’etica per il rapporto tra uomini e Tecnica – ciò che ad oggi manca – e di prospettare forme concrete in grado di regolare il nostro rapporto con l’IA stessa, per non diventare semplicemente suoi servi.
Diego Fusaro. Filosofo. Responsabile del Dipartimento di filosofia morale IASSP.
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