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Oct
Negli ultimi anni il termine “geopolitica”, da una accezione strategica lanciata dalla scuola tedesca di Ratzel e Haushofer, che sottolineava il rapporto tra la politica di sicurezza e il territorio, è entrato nel vocabolario comune con significati molteplici ed impropri, che sono spesso fonte di confusione. I riferimenti alla geopolitica hanno finito tuttavia per stimo-lare analisi concrete, basate sulla Realpolitik e sull’interesse nazionale più che sulle ideologie. In tal senso il vocabolo ha svolto pertanto un ruolo positivo sul dibattito pubblico italiano.
Italia, Europa e mondo globale sono i tre cerchi concentrici della nostra realtà. L’Italia non è al centro del mondo, ma rappresenta il centro della nostra attenzione e della nostra esistenza politica e sociale. Un’analisi concreta deve partire dunque dal nostro paese e dai suoi interessi nazionali.
Pertanto occorre analizzare come l’Italia interagisce con l’Europa e con il resto del mondo. La dimensione continentale rappresenta un anello imprescindibile nell’evoluzione storica dell’Italia, tanto a livello politico che economico. Tuttavia da qualche decennio viviamo in un contesto globalizzato, che finisce per accrescere l’influenza di dinamiche politiche e commerciali di portata mondiale, a prescindere dalla vicinanza geografica e dall’intensità dei legami politici tra le nazioni. Ciò rende più urgente dotarsi di una bussola interpretativa degli scenari globali che permetta al sistema paese di affrontare in modo consapevole le sfide all’orizzonte.
Negli Stati Uniti l’epoca è stata descritta con la sigla Vuca: Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity. L’acronimo, coniato inizialmente nelle accademie militari, dalla metà degli anni ’90 è stato introdotto nella gestione strategica aziendale, giacché le dinamiche che regolano la gestione d’impresa presentano spesso affinità con la strategia militare. Negli ultimi anni un altro importante elemento ha contraddistinto l’arena politica internazionale: l’emotività indotta dalle tecnologie Ict.
Si tratta apparentemente di un fattore in qualche modo prepolitico. Tuttavia esso esercita un ruolo crescente nella sfera politica, tanto che attori e decisori politici spesso compiono le loro scelte basandosi sulle reazioni emotive – proprie o dell’opinione pubblica – più che sul calcolo dei costi e benefici di una determinata opzione.
L’emotività viene alimentata quotidianamente da un’informazione istantanea, attraverso le reti televisive non stop news. Il flusso ininterrotto di informazioni porta molto spesso a confondere la realtà, impedendo di soppesare la reale importanza di un evento e di riflettere sul contesto con la dovuta ponderazione e freddezza.
Tale dinamica dell’informazione ha preso il sopravvento soprattutto negli Stati Uniti e in Europa mentre il resto del mondo, anche per effetto di una relativa arretratezza che favorisce processi mentali più tradizionali, sembra meno affetto dalla sindrome dell’istantaneità. Lo si vede in occasione delle crisi politiche o sociali dove nella dimensione Occidentale prevale, quantomeno nel discorso politico, l’urgenza delle soluzioni mentre soprattutto i paesi asiatici affrontano sfide ed emergenze in un orizzonte temporale più vasto.
Spesso la prospettiva tarata sugli ultimi eventi pregiudica la capacità di comprensione e reazione. Pochi mesi fa i media hanno, ad esempio, annunciato scenari catastrofici sistemici per effetto del fallimento della Silicon Valley Bank e di due altre banche regionali. In realtà si è presto compreso che la crisi era dovuta in larga misura ad errori dei rispettivi management in relazione all’aumento dei tassi di interesse, deciso dalla Federal Reserve negli Stati Uniti e dalla Bce in Europa. Dunque errori localizzati indotti anche dal modo contraddittorio con cui le Banche centrali sono passate da oltre venti anni di tassi assai ridotti a un’improvvisa impennata del costo del denaro.
La politica monetaria espansiva era cominciata già all’indomani dell’11 settembre, dopo l’attacco alle Torri gemelle preceduto a sua volta nel 2000 dallo scoppio di una delle tante bolle che condiziona-no l’andamento delle borse, quella della dotcom dopo che negli anni ’90 le aziende del settore venivano febbrilmente acquisite a un prezzo multiplo fino a 70-80 volte il valore del loro fatturato reale. Questi due avvenimenti avevano indotto l’amministrazione americana dell’epoca a premere sulla Federal Reserve per un drastico contenimento dei tassi d’interesse. I tassi erano poi leggermente risaliti fino alla nuova bolla “subprime” e dalla conseguente crisi bancaria del 2007-2008, a partire dalla quale essi sono stati drasticamente ridotti. Con la pandemia del 2020-2021 e la conseguente recessione, il mercato è stato inondato anche da politiche di bilancio espansive – la cosiddetta helicopter money – della nuova amministrazione Biden che soprattutto negli Stati Uniti, hanno determinato una fiammata inflazionistica. L’inflazione in Europa invece ha origini diverse, dovute all’aggressione russa in Ucraina e a pesanti fenomeni speculativi.
Tutti questi fattori – incertezza, instabilità finanziaria, incapacità di valutare pienamente gli effetti delle policies – contribuiscono a un quadro che non risponde più a quell’assetto unipolare che gli Stati Uniti, all’indomani del crollo dell’Urss, ritenevano di poter gestire unilateralmente. È emerso un ordine internazionale incerto e multipolare, secondo Richard Haass del Council on Foreign Relations addirittura a-polare, il cosiddetto G0 di Ian Bremmer di Eurasia. Accanto all’asse politico-economico tra Stati Uniti ed Europa si sono affermati altri attori quali Cina, Russia, India, Turchia e, in qualche misura, Iran, ex imperi o forse di imperi di ritorno.
Questo scenario si era già delineato in modo chiaro, prima che la guerra in Ucraina portasse un colpo devastante agli equilibri preesistenti. L’azione russa ha segnato la rottura dell’ordine consolidato, a livello europeo prima ancora che mondiale. Si è trattata di una mossa avventata ma al tempo stesso consapevole, come dichiarato tra l’altro da Sergej Lavrov, secondo il quale in Ucraina è in atto lo scontro tra unipolarismo a guida statunitense e multipolarismo di cui Mosca pretende di essere uno dei campioni. A questa svolta storica l’Europa è giunta impreparata e incapace di prevenire ma anche di reagire adeguatamente. Eppure si trattava di un conflitto annunciato.
La svolta negli affari dell’Ucraina è avvenuta molto prima dell’invasione del 24 febbraio 2022; può essere fatta risalire almeno alla “rivoluzione arancione” del 2004, che vide l’affermazione del filo-occidentale Jushenko. Il filorusso Janukovyč, eletto nel 2010, è stato rovesciato nel 2014 con l’insediamento a Kiev di una maggioranza orientata all’adesione del paese sia alla Nato sia all’Unione europea. Già allora i paesi europei apparvero esitanti e contraddittori, tra il desiderio di cogliere l’occasione propizia per espandere a est l’influenza dell’Unione e quello di evitare la contrapposizione frontale con il Cremlino.
In particolare la Germania, dopo aver sostenuto la defenestrazione di Janukovyč, cui la Russia aveva reagito con l’annessione della Crimea, ha offerto a Mosca un “premio all’aggressore” con la costruzione del secondo gasdotto North Stream. Dopo l’inizio della guerra ucraina, quel gasdotto è stato messo politicamente sotto accusa, e infine sabotato, alimentando l’ipotesi che uno dei bersagli del conflitto sia l’Europa a trazione tedesca.
Ciò vale anche per le sanzioni che colpiscono le nazioni europee molto più degli Stati Uniti, e per l’impatto sul piano della sicurezza, per effetto della evidente asimmetria tra le due sponde dell’Atlantico.
Una evidente asimmetria fra le due sponde dell’Atlantico è registrabile anche nel caso dei rapporti con la Cina. Gli europei sono restii a condividere l’antagonismo di Washington nei confronti di Pechino, tanto più dopo che la guerra e le sanzioni hanno ridimensionato drasticamente le relazioni con la Russia. Dagli anni ’90 le imprese statunitensi ed europee hanno effettuato massicci investimenti nella Repubblica popolare, nella convinzione che il paese sarebbe rimasto un fornitore labour intensive di prodotti a basso livello tecnologico. Pechino ha invece dimostrato un forte dinamismo in molti settori della scienza e della tecnologia, aspirando ad affermare una propria autonomia strategica e di sviluppo attraverso la Belt and Road Initiative. La Cina è stata infatti il principale beneficiario della globalizzazione e di conseguenza ne è il suo più convinto assertore, nel momento in cui viceversa gli Stati Uniti, sia con l’amministrazione Trump che con quella Biden ricercano forme di de-globalizzazione attraverso il friendly shoring e il reshoring. Il dibattito su decoupling o un più equilibrato derisking ne sono la testimonianza.
L’Occidente sembra arroccarsi attorno a una Nato anche proiettata verso l’indopacifico e al redivivo G7, che era stato considerato superato per effetto della globalizzazione e quindi in larga misura sorpassato dal G20. Riproporre ora un ritorno al G7 è una scelta debole e autoreferenziale, perché sostanzialmente raccoglie le tre componenti dell’Occidente: Nord America, Europa e Giappone e accentua il divario con il Sud globale, favorendo involontariamente la strategia cinese e russa attraverso il formato dei Brics destinato ad ampliarsi ad altri paesi.
Sergio Vento, Già Ambasciatore Nazioni Unite New York, Washington, Belgrado, Parigi e già Consigliere Diplomatico della Presidenza del Consiglio, Docente IASSP
*Nella foto Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, l’Ambasciatore Sergio Vento, il Presidente francese Jacques Chirac e il ministro degli Affari Esteri Lamberto Dini per la consegna delle insegne dii Commandeur de la Legion d’Honneur, all’Eliseo.
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03Oct
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