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Secondo me, la definizione maggiormente efficace di intelligence la si deve a Bill Gates, che sul finire del secolo scorso ha scritto: «Ho una certezza semplice ma incrollabile: il modo più significativo di differenziare la propria società dalla concorrenza, il migliore di porre una qualche distanza tra sé e gli altri, è eccellere sul piano dell’informazione. Il successo o il fallimento di un’impresa dipendono dal modo in cui si raccolgono, gestiscono e utilizzano le informazioni».
Così il fondatore di Microsoft ha spiegato l’importanza di individuare le informazioni rilevanti per assumere decisioni consapevoli.
Alla luce di questa riflessione, l’intelligence diventa fondamentale per fronteggiare la disinformazione (che soprattutto tramite i social investe ogni persona), le asimmetrie della globalizzazione (che rendono sempre più competitive e caotiche le strategie delle imprese economi-che) e l’insicurezza dei cittadini (che deve essere garantita dagli Stati che così legittimano la propria funzione).
Ma l’intelligence non è solo questo: serve per unire i fili, cogliere i segnali deboli, contestualizzare le informazioni, esercitare il pensiero contrario e difendere la democrazia da sé stessa, cioè dalle proprie inevitabili degenerazioni”. Da tale punto di vista l’intelligence può essere considerata la forma più raffinata di intelligenza umana, poiché consente di andare al di là delle apparenze, mantenendo al centro l’importanza delle facoltà umane. Capacità vitale in un periodo in cui si è affermata una società di fantasmi, dove la realtà viene costantemente deformata dal racconto mediatico.
Oltre quarant’anni fa, in modo profetico, la studiosa francese Lau-rence Bardin sosteneva: «La pubblicità [di Stato] è il segnale che stiamo entrando nella società dei fantasmi. Si vede qualcosa che deve essere fatto – l’integrazione degli immigrati, per esempio – e si pensa che sia già stato realizzato solo perché lo si è visto. Non si cerca più di agire sulla realtà ma sulle immagini». Pertanto, in un contesto in cui fatti e verità perdono di significato per capire il mondo, sostituiti dalle pulsioni emotive”, abbiamo bisogno di avvicinarci alla sempre difficile comprensione della realtà.
In ciò l’intelligence è essenziale perché ci consente di affrontare l’incertezza che caratterizza il nostro tempo. Non a caso vent’anni fa Ed-gar Morin considerava lo studio dell’incertezza uno dei saperi fondamentali del futuro”. La velocità delle metamorfosi sociali rende decrepite le attuali categorie culturali per interpretare il mondo e le parole che lo descrivono. Allora, il metodo dell’intelligence può sostenerci nel definire concetti adeguati di interpretazione della realtà, in una dimensione in cui il digitale rende tutto indistinto: il giorno dalla notte, il riposo dal lavoro, il legale dall’illegale, il vero dal falso.
Crollano, quindi, tutte le certezze cui eravamo abituati, a cominciare dal concetto elusivo di verità sostituito dall’informazione, che in tante manifestazioni concrete uniforma i sistemi autoritari con quelli democratici. Sebbene vi sia un approccio diverso alla verità, gli esiti sono purtroppo molto simili: nel primo caso la verità non si può affermare mentre nel secondo diventa superflua. Argomenta Byung-Chul Han: «Nello Stato totalitario, che è costruito su una totale menzogna, dire la verità è un atto rivoluzionario […]. Nella società dell’informazione [sostenere la verità] non porta assolutamente a nulla. Si perde nel rumore delle informazioni. La verità si disintegra in polvere di infor-
mazioni, spazzata via dal vento digitale»
Agli inizi del secolo scorso, George Simmel, uno dei padri della sociologia, spiegava che il segreto rappresenta una componente essenziale delle relazioni umane e della convivenza sociale, avendo la stessa importanza della verità e della trasparenza. Annunciando una trasparenza che genera caos dal quale sarebbe potuta provenire una possibile emancipazione umana”, la società digitale sembra produrre effetti in gran parte opposti, in quanto chi adopera i media non ha gli strumenti critici per un uso consapevole e quindi viene manipolato e orientato dagli algoritmi. Appunto per questo occorrono strumenti interpretativi come l’intelligence, che, forse a partire dal 2015, ha subito una profonda trasformazione culturale nella percezione dell’opinione pubblica, uscendo dal cono d’ombra e di accesa diffidenza del passato per essere ora percepita come una indispensabile struttura dello Stato per stabilizzare le democrazie.
In questi anni si è evidenziato un utilizzo strumentale dell’intelligence da parte dei governi, che da un lato le assegnano il compito di fonte che conferisce credibilità alle scelte pubbliche e dall’altro la usano come capro espiatorio. Nel primo caso, l’invasione dell’Iraq nel 2003, giustificata da false prove di intelligence che attestavano l’esistenza di armi chimiche mai trovate. Stessa modalità si riscontra nel conflitto russo-ucraino, in cui le intelligence dei rispettivi schieramenti stanno combattendo una guerra dell’informazione senza limiti. Al secondo caso, si possono, invece, ascrivere le vicende dell’11 settembre 20014 e del ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan del 2021.
Questi aspetti pongono in evidenza l’importanza delle visioni politiche, non sostituibili da nessun altro strumento, neppure dall’intelligence. Walter Laqueur, in piena guerra fredda ma con argomentazioni valide ancora oggi, annotava: «Contrariamente alle opinioni di Sun Tzu e di altri saggi cinesi e occidentali, le funzioni dello spionaggio sono più modeste di quanto generalmente si creda. Esso costruisce un requisito per una politica o una strategia efficaci, ma non può mai essere il surrogato di politica o strategia né della saggezza politica né della potenza militare. In mancanza di una efficace politica estera, anche il più preciso e affidabile servizio segreto non è di alcun giovamento».
Si comprende quindi come sia centrale il tema della formazione e della selezione delle élites pubbliche dalle quali dipendono le strutture dei servizi. Per Robert David Steele «una buona intelligence non serve in presenza di una cattiva politica». Non a caso, le classi dirigenti del Novecento erano in possesso di una quantità di informazioni incomparabilmente superiori a quelle dei propri predecessori, ma questo non ha affatto impedito lo scoppio dei due conflitti più devastanti della storia”.
E dato che ogni società funziona in relazione a chi la gestisce e la rappresenta, c’è bisogno di élites pubbliche creative in grado di affrontare le metamorfosi che abbiamo davanti ma che non riusciamo a comprendere poiché le interpretiamo con categorie inattuali.
Estratto dal libro “Hard Times. Le nuove guerre e la difesa europea” del prof. Mario Caligiuri, Professore ordinario all’Università della Calabria, Presidente della Società Italiana di Intelligence e relatore dei progetti di formazione IASSP
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03Oct
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