03
Oct
Il XX secolo non è finito
Finalmente pubblicato il saggio dell’Ambasciatore Sergio Vento per i tipi di Rubbettino Prefazione di Mario Caligiuri
La geopolitica nelle stanze del potere spiegata da un protagonista tra i più accreditati della diplomazia internazionale. Lucido analista e vulcanico interprete impegnato sul campo dell’ufficialità relazionale politica con la stella polare dell’interesse nazionale.
Le relazioni internazionali ruotano attorno a due possibili scenari, con una serie di varianti e correttivi: la balance of power e la power politics. La prima, ereditata dal westfaliano cuius regio, eius religio e più tardi da Clemens von Metternich, ha avuto in Henry Kissinger il suo campione. Negli anni della Guerra fredda, nella scia del telegramma di George Kennan del 1946, egli contrappose alla dottrina Brežnev la speculare dottrina Sonnenfeldt (Helmut, suo braccio destro). Kennan infatti raccomandava a Washington il containment contro i sostenitori del rollback: la sostanziale indifferenza dell’Occidente nei confronti dell’insurrezione ungherese del 1956 confermò tale scelta. Dubček ne fece le spese, nel 1978. Eisenhower nel 1956 e Johnson nel 1969 erano infatti impegnati a gestire rispettiva- mente la maldestra operazione franco-britannica a Suez e l’altrettanto infausta escalation in Vietnam.
La power politics viceversa trovò il proprio naturale e comprensibile interprete nel “polacco” Zbigniew Brzezinski. Il ruolo del pontificato di Karol Wojtyla raggiunse l’apice nel 1989-’90, quando Gorbaciov chiuse l’esperienza della Repubblica Democratica Tedesca per assicurare alla Polonia, ormai pluralista, una continuità territoriale e strategica con la Germania riunificata e con l’Occidente. La liquidazione del Patto di Var- savia e il collasso della stessa Urss ne furono il corollario all’insegna di quei nazionalismi, malattia senile del comunismo, che dalla Croazia alla Serbia, dalla Russia all’Ucraina, risuscitarono tutti i fantasmi del XX se- colo. L’Occidente vincente, distratto dalla febbre delle tecnologie dot.com e dall’euforia finanziaria e commerciale del Wto e della globalizzazione, ridisegnava la mappa geopolitica dell’Europa con il duplice parallelo allargamento a Est della Nato e dell’Unione europea, archiviando il patrimonio della Csce e dell’Osce.
Ricordo le discussioni nel 1994-’95 con i colleghi francese e tedesco, Jean-David Levitte e Joachim Bitterlich, in seno al Gruppo delle quattro presidenze preparatorio della conferenza intergovernativa di Amsterdam del dopo-Maastricht, circa quale dei due allargamenti dovesse essere prioritario. Quello della Nato appariva più facile all’asse Parigi-Berlino, alla luce sia della debolezza della Russia di Eltsin che della complessità delle riforme economiche e normative connesse all’ampliamento dell’Ue. Il pasticcio del 2004-2005, quando l’ingresso di dodici nuovi Stati membri nell’Unione non fu seguito dall’approfondimento istituzionale contemplato dal Trattato costituzionale per effetto del voto contrario nei referendum francese e olandese, dimostrarono la fallacia di quella scelta.
A distanza di oltre trent’anni è profondo il disorientamento di tutti coloro che, all’indomani del crollo del sistema sovietico, avevano prefigurato e preconizzato un nuovo ordine internazionale basato sulla stabilità politica, la sicurezza condivisa e la crescita sostenuta. Il successo dell’Occidente con la fine della Guerra fredda e del bipolarismo che l’aveva contrassegnata, avviava l’era della globalizzazione finanziaria, commerciale e tecnologica su basi pragmatiche e non ideologiche nell’interesse generale. Il G7 accoglieva la Russia mentre la neonata Organizzazione mondiale del commercio salutava l’ingresso della Cina, nuova “fabbrica del mondo”, attraverso massicci processi di offshoring, di investimento e di trasferimento di tecnologia. Nell’era Vuca (Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity) dove rappresentazione e realtà spesso si confondono, la complessità dei fenomeni e la volatilità dei comportamenti aveva ben presto generato incertezze, contraddizioni e tensioni la cui portata ha assunto propulsioni allarmanti e aspetti traumatici.
Oggi ci troviamo, infatti, ad analizzare e valutare ipotesi di un conflitto nucleare in Europa e in Asia, mentre vengono misurati l’impatto della de-globalizzazione delle supply chains e persino l’ipotesi concreta della riduzione del ruolo del dollaro nel sistema dei pagamenti internazionali e delle riserve ufficiali. Come è stato possibile un rovesciamento di prospettive di tali pro- porzioni? Tre miscalculations ed errori di valutazione sono all’origine del deterioramento degli scenari.
In primo luogo, la sopravvalutazione della cosiddetta fine della Guerra fredda, cioè aver scambiato la transizione alla liberaldemocrazia e al mercato di sei paesi dell’Europa orientale e di tre paesi baltici per la fine dell’equazione che da secoli regola il rapporto di sicurezza tra la Russia e l’Europa centro-orientale. Nessuna architettura di sicurezza e di cooperazione in Europa, per effetto della paralisi dell’Osce, ha accompagnato gli allargamenti a est della Nato a guida Stati Uniti e dell’Unione europea a guida, soltanto economica, della Germania. Gli allargamenti della Nato erano anche privi di una dimensione economica transatlantica, mentre gli allargamenti dell’Unione europea erano privi di una dimensione di politica estera, di sicurezza e di difesa. Il processo di integrazione europea è infatti poggiante unicamente sul mercantilismo tedesco per effetto di quella che più essere definita “una sindrome della grande Svizzera” e sul rigore di una moneta unica, frutto dell’intesa Mitterrand-Kohl, cui la Bundesbank aveva sacrificato il marco con riluttanza.
In secondo luogo, gli equivoci della globalizzazione – commerciale, finanziaria e tecnologica – con la Cina che non si è limitata al ruolo di “fabbrica del mondo” ad alta intensità di lavoro, ma si è proiettata a una crescita tecnologica (dal 5G all’intelligenza artificiale) e geoeconomica attraverso la Belt and Road Initiative e da ultimo con la crescente affermazione del renminbi negli scambi con le potenze petrolifere del Golfo, attratte dalla Shanghai Cooperation Organisation e dal movimento dei Brics. Infine la sottovalutazione delle nuove, embrionali aggregazioni del Global South, dall’India al Brasile ed al Sud Africa con ramificazioni nei rispettivi continenti attorno al formato dei Brics allargato. Si tratta di una riedizione del difficile rapporto nord-sud e del vecchio “non allineamento” dei tempi della Guerra fredda, allergico al bipolarismo, che l’arroccamento dell’Occidente intorno ai totem Nato e G7 rischia di alimentare.
Il paradosso è che la weaponization del dollaro, coniugata alle sanzioni (da ultimo il congelamento degli assets russi) rischia di penalizzare la posizione proprio del dollaro attraverso una diversificazione monetaria e valutaria. The West and the Rest, dall’arrogante titolo dell’opera di Niall Ferguson, si propone come una sfida che in particolare l’Europa, attempato gigante economico e perdurante nano politico, si trova a fronteggiare in un contesto reso an- cora più problematico dalle concomitanti transizioni energetica e digitale, frutto di un approccio tecnocratico intempestivo e maldestro nel mezzo di una “policrisi” epocale. Nel frattempo viene trascurato il fine-tuning e il policy mix monetario-fiscale nel sentiero stretto tra inflazione e recessione. Nel 1975, nella tempesta che aveva avvolto gli Stati Uniti con il Watergate, la transizione di Ford, la disfatta del Vietnam e il primo shock petrolifero, Valery Giscard d’ Estaing e Helmut Schmidt lanciarono il G7, un raro esempio di governance dello stress nella storia del XX secolo.
Il XX secolo che tutt’ora proietta le sue aree di crisi e i loro soggetti, statuali e non statuali, nel XXI: dall’Estremo Oriente al Medio Oriente, dall’Asia centrale al Mar Nero, dal Mediterraneo al continente africano. La tesi di Hobsbawm del “secolo breve” rifletteva l’universo di un intellettuale comunista che circoscriveva il Novecento agli anni tra il 1917 e 1991, cioè dalla rivoluzione bolscevica all’implosione dell’Unione Sovietica. Vice- versa quel secolo lunghissimo proietta fino ai giorni nostri antagonismi e tensioni addirittura ereditate dalla fine dell’800: basti pensare al “grande gioco” russo-britannico, ovvero agli effetti del collasso dell’ Impero ot- tomano, dalla Siria alla Libia, fino al perdurante equilibrio nucleare del terrore tra Washington e Mosca.
Finanza e tecnologia, tra innovazione sfrenata e bolle devastanti, ali- mentano l’illusione e le ansie di una contemporaneità al tempo stesso creativa e distruttiva: clima, pandemie, migrazioni, guerre sotto la spinta di una comunicazione ansiogena, mediatica e dei think tank che sconfina nella propaganda si sommano alle cosiddette transizioni, da quella energetica a quella digitale. Lo short termism del time is money delle sale operative di banche e fondi contagia la comunicazione politica attraverso i media, tradizionali o social, influenzando infine governanti sotto stress. Mentre l’Occidente ricerca la sintesi strategica e di sicurezza nel rilancio di alleanze militari anacronistiche, la Russia ha ricercato la propria in una avventura bellica tanto destabilizzante quanto maldestra.
Mentre nuovi materiali e microchip inondano i mercati di beni superflui e condannati alla obsolescenza precoce e programmata, la cultura woke processa il passato con i suoi fantasmi e il transumanesimo prepara un futuro di androidi e robots. Ma la società reagisce, sia pur confusamente, con dinamiche trasversali dove da tempo le nozioni di Destra e Sinistra si incrociano in una contaminazione osmotica che ha in comune il rifiuto delle oligarchie e delle loro piattaforme tecnocratiche. Ancora una volta le ambiguità dell’era Vuca, risultanti da vulnerabilità, incertezza e complessità, sembrano esprimere l’aspirazione al superamento della nozione di società, in evidente crisi di valori e di interessi, anche con il recupero di una equivoca cultura völkisch. È latente il recupero della nozione di comunità dove le nazioni, con le loro articolazioni locali, corporative, culturali e religiose, costituiscono la base, antica e nuova, dell’organizzazione politica ed economica.
Si tratta della grande sfida della nostra epoca e forse della vera fine del XX secolo.
Le pagine che seguono costituiscono un omaggio alla memoria e una testimonianza diretta lungo un itinerario professionale e culturale, una full immersion nei fatti e nei luoghi del XX secolo la cui vitalità, esaltante e drammatica, è la guida per viaggiare nel XXI iniziato in modo decisamente mediocre.
Sergio Vento, già Ambasciatore Nazioni Unite New York, Washington, Belgrado, Parigi e già Consigliere Diplomatico della Presidenza del Consiglio (dal 1992 al 1995) e relatore dei progetti di formazione Iassp
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