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Oct

I servizi segreti italiani sono chiamati, in questa fase storica, a rispondere a un’ampia e variegata serie di minacce strategiche che invitano i decisori a calibrarne il ruolo nella proiezione nazionale del Paese.
Pagani, studioso di intelligence e questioni securitarie, è titolare di un corso sul Terrorismo internazionale presso la sede ravennate dell’Università di Bologna ed è stato deputato dal 2013 al 2022 e capogruppo del Partito Democratico nella Commissione Difesa alla Camera nella XVIII Legislatura. Ha alle spalle una lunga carriera di studi e pubblicazioni in materia securitaria e di intelligence. Mondo sul quale, racconta, ha appreso molto in virtù della sua formazione sociologica.
Che rotte seguirà, nel prossimo futuro, l’intelligence italiana?
“Ho capito lavorando sul campo che è una disciplina rigorosa, che richiede correttezza e precisione metodologica, ed ho imparato l’importanza dell’analisi, cioè del lavoro che viene fatto dagli analisti, sulla base delle informazioni che hai trovato e raccolto”, racconta Pagani. Il quale aggiunge: “Quelle notizie non valgono nulla quando sono grezze, perchè devono essere verificate, validate e correlate ad altre, e solo allora acquistano un senso, e un’utilità concreta. Quindi ho continuato a studiare ancora, per imparare l’analisi. Non puoi analizzare nulla se non lo conosci”. Pagani, che ha studiato anche all’Istituto Alti Studi della Difesa e all’European Security e Defence College, inizia da qui il confronto sulle sfide dell’intelligence italiana, che questi principi li deve mettere a terra.
Quali contributi ha dato l’intelligence italiana nel contrasto al terrorismo internazionale oltre che a quello nostrano?
“Le specificità dell’intelligence italiana sono derivate principalmente dall’esperienza concreta dalle forze di polizia, che hanno imparato metodi e tecniche investigative nella lotta al terrorismo politico negli Anni di piombo ed alla criminalità organizzata di tipo mafioso. Ovviamente il terrorismo confessionale è una cosa molto diversa, perché ci sono differenze culturali, religiose, ed anche operative e militari. Tuttavia i metodi di indagine appresi sono stati utilmente trasferiti e adattati anche alla lotta al terrorismo internazionale. C’è però una differenza di fondo tra l’attività di polizia giudiziaria e quella di intelligence. L’intelligence non persegue crimini, non cerca le prove per incastrare, portare in giudizio e condannare i delinquenti. Cerca le informazioni che servono per prevenire i guai, e quindi deve lavorare in modo diverso: non deve aver fretta e non deve fare clamore, per legge non può nemmeno arrestare i delinquenti, deve seguire silenziosamente una pista per estrarre tutte le informazioni che questa può dare. Qualche volta questo lavoro può concludersi con la collaborazione con le forze di polizia, per fermare una minaccia che incombe sulla sicurezza nazionale, e si giunge così ad arrestare o espellere una persona potenzialmente pericolosa, ma le operazioni più utili sono quelle che non si vedono e che, reclutando un potenziale avversario, ne fanno una fonte informativa preziosa, perché interna al campo nemico, e quindi in grado di spiarlo. In questo modo gli ufficiali di intelligence ottengono il massimo risultato, perché reclutano delle spie. In fondo l’intelligence è spionaggio”.
Quali definizioni daresti di intelligence e, in questo contesto, di guerra psicologica?
“Spionaggio, come ho appena detto, perché essenzialmente è ricerca di informazioni segrete a supporto della decisione politica. Tuttavia le agenzie di intelligence possono svolgere anche operazioni di carattere più attivo, per tutelare l’interesse nazionale, e i conflitti cognitivi ne sono un esempio. I russi, ad esempio, sono stati sempre degli innovatori e degli sperimentatori in questo campo. Il KGB non era un semplice servizio segreto di informazioni, era piuttosto vocato all’eversione ed alla destabilizzazione dei altri Paesi. La Guerra Fredda si combatteva in tutto il mondo, in Asia, in America Latina, in Africa, e le operazioni psicologiche sono uno strumento fondamentale per orientare l’opinione pubblica e creare il contesto più favorevole all’influenza, o anche rovesciamento ed alla sostituzione di un regime politico con un altro”.
In quale modo Russia e Cina portano avanti una capillare disinformazione? Attraverso quali canali?
“È un tema che mi sta molto a cuore, perché la considero la vera emergenza democratica del nostro tempo, e su questo ho pubblicato un libro intervista, insieme al professor Caligiuri, dell’Università della Calabria. Lo abbiamo intitolato “Disinformare, ecco l’arma” perché consideriamo la disinformazione come una vera e propria arma, che uno Stato aggressivo impiega contro un altro, per destabilizzarlo, indebolirlo, condizionarne la vita politica e democratica. La Cina lo fa con forme di influenza più sottili, preferisce la penetrazione economica e la cooptazione di personalità influenti, anche la corruzione quando serve, ma non disdegna la disinformazione di Stato, con l’attenzione di nascondere sempre la mano dopo aver tirato il sasso. La Russia lo ha fatto e lo fa in modo più evidente e brutale, soprattutto sui social network, costruendo narrazioni basate su menzogne o distorcendo notizie vere, per alimentano la rabbia, il rancore sociale, le proteste, la sfiducia nelle istituzioni democratiche, e quindi la disgregazione e l’atomizzazione sociale, che sono sempre state il terreno più fertile per le derive antidemocratiche ed i totalitarismi, come insegnava Hanna Arendt”.
Quali misure credi che i servizi di sicurezza italiani debbano prendere -o abbiano già preso- per contrastare la guerra psicologica sino-russa?
“Purtroppo siamo ancora fermi a una fase di studio del fenomeno, di analisi, di ricostruzione delle strategie di influenza. Alle contromisure efficaci non siamo ancora arrivati davvero, non abbiamo idee realmente capaci di neutralizzare le operazioni psicologiche ostili. Le Big Tech, come Google e Meta, sono collaborative ed adottano strumenti basati sull’intelligenza artificiale per il contrasto agli attacchi coordinati che vengono direttamente da altri Paesi. Quando invece si tratta di disinformazione prodotta da cittadini italiani, che in buona fede hanno abboccato e creduto alle fake news ed alla narrazione costruita da potenze straniere ostili, e la replicano di propria iniziativa, la cosa si fa più complessa e difficile, perché non si può usare la censura, che è uno strumento delle dittature, per difendersi dalla loro influenza. La democrazia si basa sulla libertà di opinione e di espressione, ed esiste perché garantisce anche al più idiota di poter dire liberamente la sua scemenza, se questa non offende direttamente e non produce danni a qualcuno. Nel periodo del Covid 19 la guerra cognitiva era molto pericolosa, perché era in gioco la salute e la vita delle persone, minacciata della disinformazione sui vaccini, veicolata sui canali Telegram e sui social. Dietro c’era anche l’influenza di russi e cinesi, ma i no vax erano prevalentemente nostrani. Anche in questi casi, nei Paesi liberi non è stata adotta alcuna forma di censura, perché rinunciare al valore della libertà per salvare la democrazia dagli attacchi cognitivi dei Paesi dittatoriali significa perdere la sfida in partenza. Bisogna studiare il modo di neutralizzare la guerra psicologica senza limitare la libertà delle persone che vogliono di dire quel che credono”.
Non credi che i nostri servizi di sicurezza siano stati oggetto di una sistematica quanto profonda campagna di disinformazione molto spesso volta a delegittimarli?
“Probabilmente lo sono anche stati, ma ci hanno messo del loro per subirla passivamente, perché non hanno mai costruito una vera ed efficace campagna comunicativa che li potesse valorizzare ed accreditare presso l’opinione pubblica. È anche un problema di risorse, naturalmente, ma se guardiamo le piattaforme televisive internazionali possiamo trovare serie TV che producono fiction sulla CIA e l’FBI, sul Mossad, persino sui servizi Francesi c’è una bella produzione, per non parlare dell’MI6, reso celebre dal personaggi di James Bond, che tutti conoscono. In Italia le serie TV come il maresciallo Rocca, o il commissario Montalbano, sono state molto popolari, ma hanno valorizzano solamente le forze di polizia. Nulla di rilievo sull’intelligence”.
Quali scenari politici vedi a breve a medio termine a livello internazionale? Mi spiego meglio: non credi che l’egemonia unipolare americana sia stata e sarà profondamente ridimensionata dalla Cina, dalla Russia e in generale dai Brics?
“Credo, come diceva il vecchio Kissinger, che il vecchio Ordine Mondiale sia ormai tramontato, ma che ancora non riesca a nascere quello nuovo. Per questo stiamo vivendo un’epoca così turbolenta, piena di incertezza, disordine e violenza. Succede perché la mancanza di ordine genera mostri, come il sonno della ragione, avrebbe detto l’artista spagnolo Francisco Goya. Prima o poi un nuovo ordine dovrà venire alla luce, ma come e quando nascerà non possiamo prevederlo. Speriamo nel frattempo di non cadere nella trappola di Tucidide, la situazione politica che prende il nome dallo storico militare ateniese che ha raccontato la guerra del Peloponneso, spiegando come questa fu causata dal timore spartano per la crescente egemonia territoriale ateniese. Quando c’è una potenza emergente che insidia il ruolo ed il potere di quella dominante, il rischio che un nuovo ordine esca da una guerra è sempre molto alto, ma noi dobbiamo fare tutto il possibile per evitarlo. Anche a questo servono l’intelligence e la diplomazia”.
Intervista di Giuseppe Gagliano, presidente del Centro Studi Strategici Carlo De Cristoforis e relatore dei progetti Iassp, per InsideOver
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