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Sep
Immaginiamo il paesaggio di un quadro puntellato di colonne ed edifici in rovina. Senza esplorarne i dettagli e formare una descrizione, una parola corre quasi immediatamente alla mente: classicità. Suono che sembra evocato dalla grandezza candida e lineare delle pietre bianche. Il suo contenuto non coincide tuttavia con il rudere dilapidato dall’edera, né con lo scheletro di un’epoca passata. Che cos’è la classicità?
Sono classici gli elementi che appartengono distintamente a una precisa epoca e luogo – la filosofia greca, l’architettura romana, la musica del Settecento – o è classico ciò che raggiunge un equilibrio insuperato di finita bellezza, una vittoria sulla disarmonia? Chiamiamo con il termine classicità cronologica gli esempi della prima accezione; con classicità assiologica le emergenze della seconda. Cronologico è ciò che si riferisce al tempo; assiologico ciò che appartiene al concetto.
Il classico assiologicamente inteso può emergere in ogni epoca, indipendentemente dai connotati storici della cultura e della società che ne hanno costituito il terreno di fondazione. Un affresco romano può essere valorizzato nel contesto di una villa moderna, e converso non è raro che alcune sculture contemporanee ricordino le forme dei Kouroi greci. Ciò che è cronologicamente classico nasce e resta invece relativo all’epoca in cui si è manifestato un particolare gusto; non tutto quello che rispecchia l’estetica degli antichi può però ergersi a esempio perenne, trasversale, per le generazioni successive. A proposito del gusto, si deve osservare che la classicità tende a suggerirlo e cambiarlo con una certa frequenza, pur rispettando cifre e regolarità che permettono a posteriori di riconoscerne lo stile. Ciò esclude l’identificazione vulgata del classico con altre categorie, come il vecchio, l’attempato o il tradizionale. Il classico cambia sempre e rimane sempre se stesso.
Posta questa prima distinzione, utile a navigare con confidenza le espressioni del classico, ma certamente non categorica e passibile di molte sfumature in considerazione dei casi, sorge la domanda sull’origine della classicità come metro del valore. Partiremo non irritualmente dall’etimologia: quanto a filiazione da classis – il primo ceto dei cittadini romani e, per estensione, gli scrittori e gli esempi di opere egregie – classico rimanda all’eccellenza, a ciò che è di grande pregio, degno di essere elevato a modello e salvato dall’incuria del tempo.
Il classico, in virtù dell’autorità che gli si riconosce, sopravvive alle epoche e al mutare del gusto attraverso processi di identificazione. La sua forza, il suo equilibrio di incantevole bellezza, favoriscono l’unione di discepolo e maestro in un nodo noncurante dei secoli. Il fruitore accorto, amando il modello, lo imita e, imitandolo, ne ripropone variati gli stessi elementi nella propria vita (il classico vive in spiritu). Ci piace credere che l’opera classica risvegli in noi qualcosa che già era presente in potenza; in essa ritroviamo e accresciamo la nostra personale natura, giungiamo a desiderare che l’opera non perisca, poiché vi riconosciamo qualcosa di noi stessi.
L’amore per il classico si configura come a-mors: desiderio di non-morte dell’altro, autore e maestro, l’affetto per il quale ci muove a praticare una mimesi conservativa. Ne è esempio la Commedia di Dante, in cui Virgilio (guida intellettuale e morale) è omaggiato con la più alta riconoscenza che si possa tributare a un poeta: quasi una seconda possibilità di mostrarsi vivo ai lettori. Dante poteva scrivere un libro su Virgilio, ma ha deciso di scrivere un libro con Virgilio e, prima ancora di mettere mano al Poema, ha interiorizzato i modi e i contenuti della poesia virgiliana.
Andrea Meneghel, redazione IASSP
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03Oct
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