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Sep
L’incessante rilancio da autore ad autore, il senso di compiuta quiescenza della perfezione, la rottura della fissità storica sono i tre messaggi del classico assiologicamente inteso.
Nella classicità la meta di un singolo diviene esperienza di crescita per la comunità, riaffermazione storicamente determinata dei principi del vivere civile. Comprendere un’opera significa invenire il senso di proiezione sotteso alla progettualità originale, senza limitarsi alla filogenesi retrospettiva. Compito che appartiene a ciascuno singolarmente, per quanto drammatica la riscoperta del senso e del limite possa essere. È una vocazione, rapporto intimo e privilegiato con l’essere. Non esistono compiti collettivi.
Questa interrogazione conduce a un rapporto problematizzato, critico, con l’esistere; segna il confine tra essere ed esser-ci. La ricognizione del materiale del passato può certamente essere utile a fine creativo, ma non rappresenta la destinazione del viaggio: è semmai punto di transito, meta nell’antico senso di pietra che segna il mezzo tra inizio e traguardo. È folle – commentano gli antichi – incanutire sopra il già detto della pagina, forma di barbarie e dissipazione.
Al non-ancora si contrappone titanicamente la creatività poetica dell’agire individuale. Ciò che al momento della concezione non era considerato classico, tale è stato compreso in seguito; sotto la medesima luce del divenire si possono guardare i tentativi del presente. La navigazione dei pochi, astronauti del senso di cui riappropriarsi, può scardinare le catene amabili della ripetizione incognita.
Come ripensare, dunque, la classicità per il divenire, la classicità come progetto? Problematizzare, anzitutto, e contestualizzare i punti deboli del presente; offrire un respiro contemplativo; rivalutare l’assenza di idee come paralisi delle associazioni; pensare il compimento di nuovi equilibri stabili, non statici; collocare la classicità nella dimensione che più le conviene, quella della dialettica presente, implicita nei mezzi di cui disponiamo; riappropriarsi della possibilità stessa del contenuto, quindi della cultura, come sentimento del divenire; camminare a testa alta nella storia, come uomini e donne consapevoli della propria spirituale dignità.
Il perdurare del canone classico nella contemporaneità esprime la dialettica vincente del dono. Il dono si rivolge al futuro, alle generazioni successive, oltrepassando la claustrofobia del caso e la conservazione irriflessa del presente. In quanto figura della dialettica, il dono è un positivo non-possesso: nega il negativo della perdita. Nel dono la privazione coincide con l’acquisizione dell’altro. Perdita grande (qualità, valore) contrapposta alla grande perdita (quantità, morte). Il dono è il paradossale destino dell’accumulo – questa nevrotica monomania del valore che sequestra le energie produttive infettando la società. Esso non è trasferimento ma trasformazione: genesi di spirito dall’inerzia del materiale. Il dono è sempre senza attesa.
Quando un individuo sorride tutti i muscoli espressivi del volto collaborano a una tensione rilassata; il corpo assume una postura di benessere e pace, si accomoda nella parentesi felice tra il compimento di un’azione e l’incubazione della successiva. La classicità vuol essere il sorriso del pensiero.
Andrea Meneghel, redazione IASSP
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03Oct
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