24
Sep
La classicità è quella forma in cui è umanamente contenuta una compiutezza in divenire. Compiutezza che si afferma nel classico ed esige, con la sua verità, la nascita di una tradizione. Risposte e costumi proiettati al futuro, in cui ogni nuova vetta approfondisce e svela il tema delle precedenti. Il bacio degli innamorati, che per definizione non può mai essere l’ultimo, in quanto contiene ciascuno la promessa del successivo, pena l’evanescenza del piacere, è l’immagine della classicità. I classici non sono stati, ma sono; emergono in virtù della naturale conversione del quantitativo in qualitativo; processo favorito dalle condizioni storiche, ma in ultima analisi frutto della determinazione dei singoli.
L’assorbimento senza spazi residui delle forme culturali entro la sfera del consumo è la compiuta dissoluzione della classicità. Laddove il capolavoro classico è opera di senso per eccellenza, l’oggetto d’uso pratico, finalizzato alla caducità del quotidiano, non pone il problema dell’identità. Artefatto subordinato alla cultura del tempo, il suo destino è contenuto nella parola consumo, che adombra l’annientamento in favore d’altro. Qualcosa deve (r)esistere, nel regno glaciale della post-verità, ed avere una ragion d’essere, una finalità non prodotta per l’utile che giustifichi ab imis la fatica reale dell’agire. Senza, non ci sarebbe che il regresso all’infinito, il tutto in funzione d’altro senza che questo “altro” venga a determinarsi.
La fase inoltrata del nichilismo assiste allo svuotamento silenzioso del retaggio classico, la cui accessoria presenza è tollerata a patto che sia sterile nel contenuto, priva di resistenza. Apparentemente viva, l’eredità dell’Occidente sussiste come un pupazzo di neve, pronta a sciogliersi in un volgere d’istante. In altre parole, è il ruere: il rovesciamento che si stabilizza in rovina.
La rovina induce a credere che la grandezza passata non debba tornare. La rovina, a sua volta, è elemento di fissità sociale, più persistente della tradizione poiché garantisce – senza esigere fatica – il rimorso consolante della grandiosità del passato: nessuno ricorda la realizzabilità, né sente la necessità, di opere tanto complesse come le colonne di un’acropoli. Chi ha permesso che quelle colonne fossero coperte d’edera e di muschio di certo le ha pensate come non replicabili. I musei nascono per rispondere con la memoria all’afasia della riproduzione.
L’inquietudine del progresso chiama una salvezza metafisica, ma questa non può rispondere né essere ascoltata in mezzo all’angoscia. Le mille notizie impaginate, gli eventi che sono tanto quanto si racconta, separano l’uomo dalla natura di attore e lo restituiscono all’essere come spettatore. Solo ciò di cui si chiacchiera assume realtà. Prendiamo un caffè? Sì. La storia diventa il mausoleo dell’incompreso: archivio di fantasmi con cui governare il presente; sequenza di lapidi solenni senza connessione.
La credibilità, ancora una volta, sta nel dettaglio, nell’infinitamente piccolo che può far intendere cosa intercorse tra la mano di Amleto e il corpo senza vita di Claudio. Senza motivazioni, il fatto eticamente connotato è inintelligibile. Sopravvive l’ipotesi di ricostruzione, l’assurdo di guardare un documento e fingere che parli al posto dell’autore. Nel caso del dramma è l’attore che, replicando la scena, colma il vuoto che la storia non sa indagare. La soluzione dell’attore sta nell’interpretare: atto creativo contrapposto all’opera descrittiva della storia.
Nell’incontro con il classico fingiamo di rivolgerci a un immutabile che fu, quando dovremmo sentirci interpreti che danno consistenza al contenuto, che lo mettono in opera come novità dell’esperienza e per l’esperienza. Ricordiamoci di essere all’altezza degli antichi: vedremo tornare le colonne estinte.
Andrea Meneghel, redazione IASSP
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03Oct
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