19
Sep
La classicità è una categoria atemporale, avalutativa, metastorica. Classica è questa o quell’opera, ma il classico in sé sembra non esistere al di fuori del concreto storico, dell’universale aristotelicamente collocato in re. Riconosciamo la classicità attuata, ma ci risulta difficilissimo pensare la classicità potenziale, oltre le forme espresse ed esperite.
Il classico tocca i confini di un’altra ben delineata sfera semantica, quella della perfezione. Perfetto è ciò che ha raggiunto il proprio compimento: presenza di tutte le parti nel giusto ordine e insussistenza di interventi migliorativi disponibili. La perfezione, nella storia, non si dà mai come stato definitivo delle cose (dovrebbe venire a mancare l’insidia della corruzione) bensì come processo di tensione verso l’equilibrio del contenuto e della forma. Oggi si usa ripetere che la perfezione non esiste, che appartiene all’ideale; accade di ascoltare improbabili discorsi sugli esiti persino noiosi della perfezione. Si tratta di un peculiare rifiuto della finitezza che caratterizza la nostra epoca. Con la caduta dell’astro polare della perfezione – estetica, metafisica e morale – viene congiuntamente a mancare l’ottimismo operativo dell’azione individuale e sociale.
Affermare la realizzabilità della perfezione contraddice un tabù fondamentale della mitologia contemporanea: la fiducia nel progresso, l’incontenibile sviluppo della tecnica. Tutto deve restare ed essere pensato come imperfetto in attesa di un domani migliore, tamponando ed annacquando le deficienze del presente. La perfezione richiede, al contrario, l’accettazione delle cose finite per come esse sono, incorporando la ferita e il dolore a lato dei pregi.
Sotto lenti sociologiche, la mitomania del progresso si comporta come un disperato in cerca di conferma: mal pago di ciò che possiede, anela continuamente nuovi incrementi di adeguatezza. La sua irrequietudine ammette al massimo una convalescenza (“crisi” o emergenza, nel lessico di oggi), ossia un periodo di rallentamento della ὕβρις, fino alla sospensione. Il progresso può rallentare o fermarsi per ragioni contingenti, come la scarsità di risorse, ma non ha un confine vero e proprio, un limite giunto al quale si arresti appagato. Questo movimento, per sé neutro, viene a priori percepito come positivo, facendo collimare progresso e miglioramento tout court. La conseguenza paradossale è che, anche in caso di un palese regresso, la novità è accolta con festa. Non c’è un punto in cui la contemporaneità sia contenta di sé e, quando avviene, si verifica in forme volgari e imbarazzanti.
Perfezione è la parola che spezza l’incantesimo del progresso e sottrae gli enti alla τυραννίς di Prometeo – che, non a caso, è colui che pensa le cose prima che avvengano, non accontentandosi del cosmo reale – ma la perfezione non è ammessa nella modernità. Si trova al limite velata, come una donna che incede a volto coperto tra lo sconquasso dei macchinari fabbricanti, per non disturbare il ritmo della tecnica.
Se una cosa fosse riconosciuta come perfetta, non angoscerebbe gli uomini con il continuo mutare delle apparenze, vincerebbe il fragore ingannevole del consumo, delle merci, del denaro, il quale, non potendo agitare come in un gioco di prestigio la mano del mutamento, scomparirebbe. Il non restar mai fermo della finanza convince gli uomini che ci si sia qualcosa sotto il vortice delle contrattazioni, quotazioni e titoli. Il momento performativo dell’esecuzione tecnica, avanzata quanto si vuole, è dunque indispensabile al preservarsi del sistema.
La forma compiuta, perfetta, afferma il contenuto, al contrario della forma incompiuta, o imperfetta, che lo nega. Negare la possibilità di una perfezione è la premessa, se non già l’attuazione, della negazione di ogni contenuto. In relazione alle opere umane, la perfezione è semplicemente compiutezza; null’altro si dovrebbe cercare affinché qualcosa si dica perfetto.
Andrea Meneghel, redazione IASSP
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03Oct
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