10
May
Anziché un numero superiore di lauree, avremmo bisogno di una rifunzionalizzazione del sistema universitario in direzione di una maggiore integrazione sistemica tra atenei, imprese, settore pubblico e intelligence (intesa nel significato ampio di informazione e pianificazione strategica). Stiamo intraprendendo la direzione opposta: burocrazia che prevale sul contenuto e sulla serenità di docenti e studenti nel modo più gretto e stupido che si possa pensare; protocolli comunicativi in cui, per evadere la domanda sulla visione complessiva, si insinuano le più dementi venature del politicamente corretto (femminile sovraesteso, festa d’inverno, giornata dell’abbraccio); titoli con lode che si conferiscono come caramelle, spesso funzionali all’affermazione egoica di persone insicure, perché senza laurea oggi si viene additati come signor Nessuno – un’assurda offesa storica alla generazione che ha costruito il Paese senza pergamene appese alla parete.
In breve, la domanda asciuttamente quantitativa sulle lauree rimarrebbe priva di senso senza l’inclusione di un ragionamento completo sullo scopo, destinazione, proporzione di queste lauree.
Dalla diffusa alfabetizzazione avanzata derivano sicuramente vantaggi di beneficio collettivo: l’agevolazione della prassi informativa, il rispetto dei processi democratici, la maggior consapevolezza sociale e persino lo snellimento della spesa sanitaria e una riduzione del tasso di criminalità. Non sono questi, tuttavia, gli obiettivi per cui ci si laurea in prima istanza.
Ricordiamo che proprio il fattore umano dovrebbe dissuadere dal considerare le vite, le aspettative, l’istruzione delle persone in termini di utilità materiale. Tutto è perduto se lasciamo prevalere la bruta forza del calcolo e l’immorale strapotere del dato di fatto. Lo studio è prima di ogni altra cosa bildung, esperienza formante e formativa.
In secondo luogo, la formazione dovrebbe promuovere la creatività d’impresa, l’edificazione di realtà nuove, la propensione all’indipendenza economica e di pensiero – cose che si applicano anche alla cultura – anziché l’atteggiamento da impiegati super-qualificati, istruiti ma subalterni, alla costante ricerca di rassicurazioni di carriera. La sicurezza e la stabilità lavorativa sono importanti, anzi fondamentali, ma ci si ingannerebbe scambiandole con la passività. Questo atteggiamento giunge fino ai fondi sconfortanti della richiesta di sussidio da parte dei nuovi descamisados della classe allargata del precariato.
Il terzo grande passo sarebbe ripensare il sistema Italia. Qui il grande accusato sono le condizioni – note a molti, per cui non ci dilungheremo – che abbattono e riducono pressoché a zero la volontà di aprire un’impresa in Italia o espanderne una ben avviata. A cosa servirebbero 2 milioni o 10 milioni di laureati in più nel Paese, se una parte consistente di questi emigrasse altrove – perché in altri luoghi pagano l’eccellenza – e la restante confluisse in attività del settore terziario (utili, se non in sovrannumero) o qualche mede in Italy acquisito da una multinazionale estera? Resteremmo un Paese immobile.
A fronte di tutto ciò, rispondere alla domanda «abbiamo abbastanza laureati?» risulta inevitabilmente arduo. Costretti a optare per una soluzione binaria, ci schiereremmo per il sì, ma senza perdere di vista le importanti riserve e interrogativi che intercorrono tra la comprensione di un problema e il suo graduale appianamento. Consapevoli che la realtà si compone di colori e sfumature, possiamo evitare di muoverci come le pedine di una scacchiera e risultare altrettanto “legnosi” nella pianificazione dei passi intermedi. Questa visione a pieno giro della questione è a nostro giudizio parte integrante della risposta. Le analisi – come purtroppo molte tra quelle su cui ci siamo documentati – che sono strutturate sulla nuda constatazione dei dati, estromessi dal contesto e astratti a parametro guida delle scelte strategiche, rischiano di incorrere in gravi difetti di realismo e profondità.
Andrea Meneghel, filosofo e collaboratore IASSP
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