18
Apr
Abbiamo esplorato nei precedenti due articoli le caratteristiche distintive delle università telematiche e la loro importanza rispetto alle esigenze del lavoro; prenderemo ora in esame il dilemma radicale e inevitabile del rapporto tra qualità e quantità. Doverosa premessa: parliamo di qualità in termini al contempo realistici e democratici, prescindendo dalla consolante utopia di una relazione win-win, ma evitando al contempo il banale cinismo di una logica di opposizione. Qualità e quantità non sono reciprocamente escludenti: il loro equilibrio va cercato e perseguito anche in relazione all’istruzione superiore.
Le università telematiche offrono a tutti sul territorio nazionale le stesse lezioni (sottoforma di prodotti registrati costanti nel tempo e uguali per qualunque utente) e presentano identiche modalità di svolgimento dei corsi, programmazione dei piani di studio e valutazione finale. Come può questa uniformità conciliarsi con una stratificazione qualitativa? Lo può fare in due modi: promuovendo l’accesso alla formazione costante e offrendo percorsi alternativi, paralleli, d’eccellenza per chi desidera sostenere un onere formativo supplementare.
La figura dello studente lavoratore ha conosciuto momenti di popolarità e impopolarità: un tempo più di oggi era la norma per nuclei famigliari che non avrebbero potuto altrimenti permettersi il mantenimento e le rette di uno o più figli impegnati nello studio; per fortuna, questa evenienza e i disagi connessi – non ultimo il trattamento impari riservato da alcuni docenti agli incrollabili dei corsi serali – sono meno frequenti, ma si è perduto un aspetto del merito di coloro che contro le avversità guadagnavano il diritto all’autodeterminazione e all’emancipazione individuale. In parte si è provato a reintrodurre l’elemento esperienziale del lavoro con il tirocinio e il praticantato curricolari; tuttavia – qui sta la contraddizione – questi strumenti ricorrono a motivazioni estrinseche (una riga sul curricolo e una spunta sulla casella del libretto accademico), prive della forza e della persistenza delle motivazioni intrinseche e, aggiungiamo, del piacere indimenticabile della conquista. Il tirocinio resta un elemento ornamentale, un ostacolo di percorso. Malgrado le riforme, non può essere fatto rientrare dalla finestra ciò che è stato espulso dal portone principale. Le università telematiche offrono un’interessante alternativa: la possibilità di conseguire un primo o successivo titolo di studio senza rinunciare a mantenere una situazione lavorativamente attiva grazie a ritmi meno incalzanti e alla versatilità di luoghi e orari. Si tratta, appunto, di una possibilità, lasciata aperta a chi spontaneamente desidera alzare l’asta del traguardo personale. Cos’altro meglio di ciò si dice merito?
Quanto alla seconda opzione – quella dei percorsi di eccellenza – riteniamo sia una opportunità davvero impareggiabile, in cui le nuove realtà di formazione possono guadagnare e mantenere un primato d’avanguardia. I percorsi di eccellenza sono il naturale terreno di coltura e fortificazione del talento: includono attività supplementari in presenza, percorsi dedicati, tutoraggio individuale, esperienze in contesti lavorativi di alto profilo. Tutte occasioni da non collocare dietro una barriera economica – merito, non pretio – bensì da rendere disponibili a quanti hanno capacità e persistenza di sostenere oneri formativi supplementari, prove intermedie e saggi di persistenza.
Ovviamente, rimane la vexata quaestio di come riconoscere il merito. Tutti possono essere meritevoli; molti però non sono attratti dal meritò in sé, quanto dai vantaggi sociali che possono guadagnare coloro che sono indicati più o meno correttamente come meritevoli. Essere motivati da un vantaggio sociale o materiale non è condizione sufficiente perché si parli di merito. Manca il movente intrinseco. Il paradosso dell’innamorato, nella sua ingenuità, spiega bene la distinzione: non si può parlare di amore se oggetto del desiderio è il corpo o le ricchezze associati all’amato; l’amore non accetta altro sostituto che l’amato in sé. In ugual modo, il merito cedevolmente fondato sull’utile è una maschera di se stesso. Meritevole, insomma, è colui che cerca il merito con la consapevolezza di un possibile e legittimo guadagno per il proprio impegno, ma prescindere da questo.
Un sistema meritocratico all’altezza dovrebbe distinguere il vero merito da quello presunto, valorizzando il primo ed escludendo il secondo. Ciò in un sistema perfetto, ma sappiamo quanto sia complesso tendere anche solo a un buon equilibrio. In termini concreti, possiamo creare ambienti idonei e organizzare criteri di validazione, costantemente esposti a un margine di errore, ma pur sempre qualcosa; una velina contro la casualità e l’indifferenza, efficace in proporzione alla prudenza con cui riflettiamo sui criteri di scelta, ricordando che il merito non riconosciuto è una qualità tradita.
Andrea Meneghel, redazione IASSP
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