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Mar
Gli inglesi usano un’espressione per indicare una situazione che appare vinta in partenza: “yours to lose”; in essa appare un elemento interessante che eccede la versione italiana – unico motivo per cui la citiamo – ed è l’accenno in positivo alla possibilità che volendo (e un poco, sarcasticamente, impegnandosi) la sfida in questione possa essere persa dagli errori stessi di colui o coloro che erano sembrati in vantaggio.
L’Italia gioca da tempo una partita con esorbitante vantaggio culturale, storico, artistico, paesaggistico, industriale, gastronomico e… di fronte al mondo si mostra come la bisognosa Italietta del potenziale mancato. Povera Italia! Si direbbe, se non fosse che all’inno di “povera Italia” si continuano a spazzare sotto il tappeto le deficienze rimediabili e le distrazioni francamente imbarazzanti di un Paese che ha tutte le carte vincenti per rivaleggiare, anzi primeggiare, nella tenzone della geopolitica e della geoeconomia. Non perché debbano esserci necessariamente rivali e sconfitti nei rapporti tra potenze – come vorrebbe il giudizio del Machiavelli, a cui obiettiamo che storicamente l’equilibrio è il migliore preambolo alla pace – ma per difendere una posizione, un’identità, un popolo (se si usa ancora dire così) e non farsi travolgere dalla voracità degli interessi transnazionali. Paragoneremmo l’Italia a un principe che ha deciso di recitare la parte di giullare, se non fosse invalsa la diversa metafora di un famoso trio comico.
Mi trovavo in vacanza a Firenze circa una settimana fa, per rivedere e godere ancora una volta le opere note, con la scusa di mostrarle a un amico. Nel programma non manca mai un giorno agli Uffizi, scrupolosamente organizzato per entrare all’orario di apertura e restare pressoché ultimi prima della chiusura, che è il momento perfetto per relazionarsi con l’arte. In tutto sono circa 10 ore all’interno del museo. Avevamo portato per sostenerci della frutta secca confezionata, da consumare come educati visitatori lontani dal percorso espositivo. Pur sorvolando sulla disorganizzazione all’ingresso, e sul trattamento da ranch americano ricevuto dagli addetti ai protocolli di sicurezza (“please next one! Put your bags inside the machine and your pockets on the table”), non ho potuto mancare di oppormi alla confisca delle nostre sparute refezioni. La contraddizione vigeva nel fatto che, stando a quanto abbiamo appreso dalle acerbe voci dei controllori, il regolamento obbligava a tre alternative ugualmente inaccettabili: digiunare, uscire dal museo pagando un secondo biglietto per rientrare oppure comprare qualcosa al costosissimo bar interno (una coppia prima di noi ha pagato quaranta euro per tre panini, due cappuccini e un succo – “sigh” direbbero i fumetti). Nessuna di queste alternative, passabili di per sé, specialmente se si viaggia da soli, può essere prescritta da un regolamento a un gruppo eterogeneo di persone, soprattutto in un museo che richiede molte ore affinché se ne possa ricavare un’esperienza piena.
Questo è solo un esempio di completa e inspiegabile mancanza di cura in uno tra i massimi gioielli dell’Italia. A qualcuno potrà sembrare un’occasione triviale, ma ciò è esattamente quello che si è cercato di evidenziare in queste righe: anche le più piccole accidentalità sono abbandonate all’assenza di pensiero. Tentare di porre rimedio a questo stillicidio di inavvedutezze spesso non procura altro che la tremenda cascata di burocrazia con cui si affossa maggiormente il sistema. Avrei dovuto, per coerenza con l’apparato istituzionale, esporre reclamo per l’assenza di alternative legate al momento del pasto, per l’insufficiente stato di protezione di alcune opere, per l’assenza di ventilazione in una sala, per gli errori ortografici nei pannelli esplicativi. Tutto viene di conseguenza, “a valle” rispetto a un problema che si articola “a monte”, che è la profonda assenza di amor proprio, di ragione critica costruttiva che sembra consegnare questo Paese, ancora una volta, a un immeritato giudizio di barbarie, ossia ciò contro cui più energicamente si è opposto nel procedere della sua storia.
Abbiamo esposto le nostre istanze davanti alle guardie e queste cordialmente ci hanno dato ragione ma, hanno aggiunto, il problema del “cibo” era emerso solo di recente, quando il caso di un visitatore con un panino grondante sugo ha destato preoccupazione; tempo tre mesi e l’allarme andrà dimenticato. Così molti preferiscono dimenticare tutto, davanti alla bellezza, ed andare avanti, perché c’è un non so cosa di perdonabile nell’Italia, che dà un senso a ciò che palpita sulla sua terra. Se goffamente continuiamo a commettere errori nella nostra strategia di promozione e tutela nazionale, cerchiamo di essere consapevoli che le scuse, se abusate, ci rendono via via più imperdonabili.
Andrea Meneghel, filosofo, collaboratore IASSP
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