05
Mar
Con parole e formule diverse si è cercato di descrivere lo stesso fenomeno che prende il nome di sradicamento, di morte della patria e della nazione. Patria e nazione, due parole che in Italia dal dopoguerra in poi sono diventate parolacce e sono state sostituite dal termine paese, più neutro e accettabile, nonché spoliticizzato.
Per cominciare a organizzare questi concetti è necessario muoversi su tre livelli differenti: uno generale che va sotto il nome di globalizzazione, uno intermedio che riguarda il “sogno europeo” e infine il terzo livello, quello nazionale. Partendo dalla prospettiva squisitamente italiana, esiste senza dubbio un problema di classe politica. I francesi hanno l’ENA, hanno una scuola di guerra economica (consapevoli che “l’alto livello di concorrenza” postulato dall’Unione Europea e ancor prima nell’articolo 2 del vecchio trattato sull’Unione Europea riguardava il conflitto intereuropeo e non solo quello tra l’area europea e il resto del mondo).
Non si tratta di involuzione, i trattati da Lisbona in poi non sono altro che una codificazione di politiche economiche neoliberali e del peggior neoliberismo. I trattati servono a rendere incompatibili con il diritto vigente politiche economiche alternative. Tant’è vero che questi trattati hanno esplicitamente richiesto dopo il 2011 una specifica modifica della Costituzione repubblicana con la riforma dell’articolo 81. Un paio di anni fa è stata visibile a tutti la complessità di una riforma costituzionale, con le lungaggini dei tempi parlamentari, eppure non è stato così per modificare l’articolo 81. Il governo Monti, entrato in carica l’11 novembre del 2011, presenta il progetto di modifica il 22 novembre, dopo circa dieci giorni. Proposto come un atto di innocenza da Piero Giarda, a marzo avviene la doppia deliberazione da parte delle due camere e nell’aprile 2012 la legge costituzionale era già entrata in vigore e l’articolo 81 era stato inserito nel testo della Carta del 1948.
L’articolo 81 aveva un duplice obiettivo: riprodurre all’interno dell’ordinamento nazionale il divieto di politiche economiche diverse da quelle prescritte dai famosi trattati (espansive, anticicliche, keynesiane); il secondo effetto era quello di mutare dall’interno il testo e il consenso della costituzione repubblicana, producendo una mutazione progressiva dei contenuti del 1948. La Costituzione del 1948 va sotto il nome di Costituzione sociale perché contiene i diritti sociali: previdenza, assistenza sanitaria, tutela del lavoro, pensioni, istruzione. Questi sono diritti pretensivi, ossia sono diritti “a chiedere” da parte di ognuno di noi allo Stato, alla Regione, al Comune. È questo il grande progetto su cui si imperniava il rimodellamento della società italiana dopo il 1948, nato dall’accordo tra cattolici e comunisti. I diritti sociali sono una spesa per lo Stato e le strutture pubbliche, quindi l’articolo 81 pone un vincolo utile qualora non li si possa finanziare. Letti all’inizio come norme programmatiche, aspirazioni e progetti politici e non come vere e proprie norme giuridiche, tornano così a essere petizioni di principio e dichiarazioni di anime belle. Il senso dell’articolo 81 è quindi quello di far tornare progressivamente la Costituzione e la garanzia costituzionale dei diritti sociali alla dimensione di simpatiche norme programmatiche che non possono essere attuate perché “mancano i soldi”. Discorso molto chiaro, semplice e stringente.
L’Italia ha molte particolarità rispetto al resto d’Europa, ma ce n’è una che la accomuna ai paesi dell’Europa orientale e non a quelli dell’Europa occidentale: è stato l’unico paese dell’Europa occidentale ad aver subito dopo il 1989 una radicale eliminazione del ceto politico e della classe politica con una sua sostituzione improvvisa e radicale. È successo in Romania con Ceaușescu e in Polonia con il generale Jaruzelski. Oggi mancano gli occhiali scuri ma l’argomento è identico. Nelle tecniche di governo esistono infatti delle costanti – la governabilità – descritte perfettamente da Michel Foucault. La gente viene sempre governata da tecniche identiche che hanno solamente nomi differenti a seconda della lingua e del contesto storico. Tutto nasce dalla considerazione di Max Weber: non è l’autorità a generare l’obbedienza ma è l’obbedienza a generare l’autorità ed è interesse del potere far credere il contrario.
Questa è la chiave del controllo sociale e delle tecniche di governo: gouvernamentalité. Uno dei più feroci critici ante litteram dell’Unione europea è stato proprio Foucault negli anni ’70 con Nascita della biopolitica che considera le dottrine del neoliberismo in Europa, l’ordoliberismo di cui parla Giulio Sapelli, e le dottrine del neoliberismo americano. È significativa questa eliminazione della classe politica in Italia dopo il 1989; in Francia non è accaduto, in Germania nemmeno e men che meno in Inghilterra. Un fatto che ci pone indubbiamente in una situazione di enorme debolezza nei confronti degli altri paesi europei a partire dal ’92 e dal ’93, anni in cui sempre in ossequio con il progetto europeo è partita la liberalizzazione dei servizi pubblici, la svendita a pezzi della più grossa struttura industriale di questo paese, l’IRI, che gestiva le ferrovie, le autostrade, tutte le telecomunicazioni, l’ILVA, Fincantieri, Finmeccanica, Finmare, Leonardo, ENI, Banche di interesse nazionale come la Banca Commerciale Italiana, il Banco di Roma, il Banco di Napoli ecc.
Un conglomerato economico, finanziario e commerciale eccezionale in cui c’erano tecnologia, competenza e investimento nella formazione. C’era la creazione di una classe dirigente non solo politica ma di tecnici, ingegneri, portatori di competenze specifiche che è stata smembrata completamente e data alle macerie dalla borghesia “vendedora”. La vecchia classe politica, anch’essa fatta a pezzi, non avrebbe consentito una operazione del genere, di vendita a pezzi e bocconi del più grosso complesso industriale e finanziario d’Europa. La politica entrava in rapporto con la società, con le attività produttive e finanziarie. Quando si smantellano tutte le partecipate statali, si smantella anche l’autorità politica. E in Italia è potuto accadere perché esisteva il patto Andreatta-Van Miert. Van Miert era un commissario belga europeo, uno dei padri della politica europea sulla concorrenza, che aveva permesso al governo italiano di ricapitalizzare l’Eni a patto che lo svendesse dopo il 1990. Questo è il senso del patto.
Beniamino Andreatta, colui che volle il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, avvenuto nel 1981, il divorzio più caro e discutibile della storia italiana che è stato l’inizio della fase di costruzione di quel debito pubblico che oggi ci viene rimproverato (debito pubblico che nel 1980/81 era del 60%). Nel 1992, quando arriva il presidente del consiglio Amato, il debito pubblico è il 120% del PIL, raddoppiando selvaggiamente in dieci anni perché dopo il divorzio tra Banca d’Italia e del Tesoro lo Stato italiano ha iniziato a pagare interessi reali, positivi, sull’emissione del debito pubblico. Se guardiamo i grafici della spesa corrente del governo italiano dal 1981 al 1992 sul finanziamento dei diritti sociali vedremo la drastica caduta di questa spesa contro l’impennata della spesa per interessi.
Capite che c’è qualcosa che non torna nella narrazione corrente, che è a tutti gli effetti uno specchietto per le allodole costruito sulla triade “casta-cricca-corruzione”. In questo modo gli economisti di regime tralasciano di dire che il deficit annuale sul quale l’Italia viene continuamente bacchettata dai burocrati di Bruxelles è dovuto agli interessi passivi, non certamente alla spesa pubblica (inferiore a quella francese) e alla corruzione.
Cosa vuol dire veramente il termine “sovranità”? Si riferisce allo Stato? Sovranista, populista, elitista sono etichette, così i termini patria, nazione, paese sono armi politiche come le definiva Carl Schmitt. Al posto delle spade si usano le parole e i termini concetto. L’articolo 1 della Costituzione dice che la sovranità appartiene al popolo, ma chi è il popolo? È un termine molto preciso che è legato allo Stato da una relazione e un rapporto giuridico di cittadinanza. Questo fatto mette in relazione diretta l’articolo 1 con l’articolo 48 della Costituzione, ossia che votare nelle elezioni politiche sono i cittadini. La sovranità in realtà, come detto negli anni ’60 da Giuseppe Guarino (decano dei costituzionalisti e dei pubblicisti italiani, ormai inascoltato perché scomodo e fastidioso), non è altro che la somma delle libertà individuali. Quindi sovranità come sinonimo di libertà, soprattutto di quella libertà fondamentale che è la libertà di voto. Thoma Paine affermava che il primo diritto fondamentale dell’uomo è il diritto di scegliersi da chi essere governati. La compressione o la cessione di sovranità è compressione e cessione di libertà politica.
Alessandro Mangia, Docente di Diritto costituzionale Università Cattolica. Relatore IASSP. Sbobinatura a cura della redazione dell’Istituto non corretta dall’Autore
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