27
Mar
Prepariamoci a tempi sfavorevoli. Decenni di avvertimenti caduti nel vuoto – sulla precarietà dell’istruzione, sulle bolle finanziarie, sulla delocalizzazione, sui pericoli del benessere e sul declino – ci hanno preparato. La lezione delle crisi del Novecento e del Duemila, rimasta inascoltata, ci attende per segnare nuovi errori sul taccuino di piombo della storia. La mia generazione – quella che viene chiamata generazione Z, ma potrei includere le vicine d’età e d’alfabeto generazione Y e buona parte della X – reciterà in una storia il cui copione non è stato scritto dai suoi protagonisti, ma da coloro che hanno pro-gettato le basi culturali di un’epoca che credeva di ricapitolare e concludere in sé la storia. Se non fossimo stati lievi di mente, il rombo degli aerei di guerra sopra i cieli dell’Iran, della Siria, della Libia, dell’Ucraina ci avrebbe predetto un esito diverso.
Gli anni ‘60 assomigliavano agli anni ’70 o ’80 molto meno di quanto i primi decenni del Duemila siano tra loro simili. Scossi ogni tanto da qualche fulmine senza nubi, ma sostanzialmente compatti nel loro adagio quasi cantilenante, mostrano una società che è cambiata camminando in punta di piedi: qua una gara sportiva, là un dittatore da abbattere in un paese lontano, lì un nuovo modello di cellulare, qui un ispessimento soffocante della burocrazia. Frattanto, il mondo si è mosso a passi da gigante: gli equilibri geopolitici sono cambiati; la crisi economica (anzi, la crisi in generale) serpeggia come fenomeno ricorrente, non episodico; la Cina è diventata un colosso industriale e tecnologico; Google processa miliardi di ricerche ogni giorno; più del 50 per cento della popolazione mondiale possiede uno smartphone. Nel frattempo, cosa facevano le élite politiche e culturali? Hanno formato una futura classe dirigente? Oggi la domanda suona con rintocchi preoccupanti: dove sono le guide della società? Ai molti e che paiono affogare nel trambusto del mondo contemporaneo, con i suoi “ritmi d’acciaio”, si affianca una nuova massa di tranquilli, che chiedono solo un po’ di pace e la batteria del telefono carica. Nemmeno la più democratica delle società può coinvolgere nel governo la pluralità che rinuncia a scegliere. Le parole di Adorno appaiono rivelatrici:
«Ognuno è tenuto a comportarsi, in modo per così dire spontaneo, secondo il “level” che gli è stato assegnato in anticipo sulla base degli indici statistici, e a rivolgersi alla categoria di prodotti di massa che è stata fabbricata appositamente per il suo tipo. Ridotti a materiale statistico, i consumatori vengono suddivisi, sulle carte geografiche degli uffici per le ricerche di mercato, che non si distinguono praticamente più da quelli di propaganda, in gruppi di reddito, in caselle verdi, rosse e azzurre»[1].
Prepararsi a tempi sfavorevoli sono parole che possono raggiungere il sentimento del lettore in molti modi, dallo sconforto, all’ansia, alla tristezza, fino all’allarme. Noi le intendiamo in un senso meno immediato, ma altrettanto plausibile: le circostanze sono quelle che sono, non le scegliamo a nostro grado, ma rappresentano il punto di partenza per comprendere realisticamente l’avvenire e progettare le nostre opzioni; dovremo adottare strategie nuove, inconsuete, forse impopolari; sopravvivere è possibile, navigare è necessario. È il tempo dell’avventura, delle scelte difficili, delle conquiste significative, dell’areté. È il tempo dei corsari, dei visionari, dei meditatori, degli operosi, degli incompleti, dei callidi e degli inusuali. I tempi sfavorevoli non sono tempi difficili: cosa di più facile c’è del lasciarsi trasportare passivamente dalla rovina mentre questa avanza? Parliamo di tempi sfavorevoli con un’esortazione: prepariamoci e prepariamoci ancora, cras ingens iterabimus aequor.
Andrea Meneghel, filosofo, redattore IASSP
[1] M. Horkheimer e T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, tr. it. R. Solmi, Einaudi, Torino, 1966.
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