06
Feb
Volevo elaborare uno scritto sull’intelligenza artificiale a partire dal libro di Faggin. Mi sono reso accorto, procedendo, che la mia idea di partenza era banale e che non occorrevano molte parole per argomentarla. Ecco la mia idea: ritengo che il ruolo della metafisica non sia affatto tramontato, perché la vediamo primeggiare ancora nella ricerca di una specificità umana. Curiosamente, in questi ultimi anni il dibattito sulla distinzione ontologica si è spostato dal segnare i confini dell’uomo con l’animale (come in Aristotele) a evitare il trapasso del regno umano in quello delle macchine. In gioco evidentemente non è la volontà di elevare le macchine all’uomo – a chi importa di una macchina? – ma abbassare l’uomo verso la dimensione della materia. Faggin propone una netta distinzione tra il regno del materiale, la dimensione della coscienza e il dominio liminale dell’informazione.
Tra queste rende chiaramente ragione di una interazione e di una dinamica, spesso ampliando il tema con qualche ricco dettaglio sulla storia dell’informatica. Interessante ma, al suo nocciolo – siamo sinceri – è metafisica, disciplina che considero assolutamente nobile ma che deve essere chiamata col proprio nome. La novità teoretica che propongo nella mia tesi sta nell’accettare la valenza metafisica della distinzione e considerare l’incomparabilità tra uomo e macchina a priori, anziché a posteriori. In sintesi: l’esistenza dell’umano precede ogni argomentazione. Uomo può solo essere considerato colui che ha coscienza e libero arbitrio, altrimenti non è. Nessun fenomeno fisico può turbare la certezza di chi crede che l’uomo sia. Chi accetta il contrario facilmente accumulerà prove e conferme per un’opzione presa in partenza. Fatico a escludere il ragionamento metafisico e l’appello alla trascendenza da ciascuna delle due opzioni, che si neghi o si conforti. La fisica non è così completa come si pensa: non conosciamo cosa si trova al di sotto di una certa grandezza, prima dell’espansione cosmica, oltre un certo limite spaziale.
Questa breve idea ha attraversato cicli di scrittura e riscrittura; ancora non mi soddisfa. Ho almeno deposto i gravami di questo ostacolo creativo e scalzato i piedi dai coturni. Con mente più serena nuovi pensieri si sono avvicendati. Ho iniziato a rivalutare il tema dell’intelligenza artificiale da un’altra prospettiva. Più che un problema teoretico, mi sembra una questione sociale. Un’innovazione tecnica ha saturato l’immaginario collettivo: non si tratta di un fenomeno nuovo per l’Occidente. Nel Settecento la scoperta della corrente elettrica ha eccitato la proliferazione di diverse avanguardie folkloristiche, diventando il trastullo di scienziati poco filosofi e filosofi poco scienziati. Oggi guardiamo con divertita leggerezza quel periodo in cui si riteneva che i corpi fossero fatti di materia elettrica e che questa potesse essere usata per guarire i malati e rianimare cadaveri. Penso che l’esasperazione che stiamo vivendo sia qualcosa di simile; quando un elemento della mentalità scientifica diventa un onnipresente idolo si è tentati di trasporne il modello oltre la sua corretta area di applicazione. Nella finzione scenica, il teletrasporto di Star Trek funziona registrando i dati atomici degli utenti per ricostruirli al luogo di destinazione, come se la materia bastasse al concetto di vita.
Praticamente non viaggiano, vengono clonati. Chi mai penserebbe che ciò non sia un’assurdità?
L’“intelligenza artificiale”, parlando rettamente, non si dovrebbe nemmeno chiamare con questo nome: calcolo complesso, informazione combinata, statistica procedurale sono designazioni semantiche più pertinenti. Sono meno fascinose, certo. Il fascino lasciamolo ai maghi. Anziché parlare di AI, preferisco riferirmi al MAI (Mirage of Artificial Intelligence). Il miraggio è quell’illusione ottica per cui un’oggetto ci appare dislocato diversamente dalla sua posizione. Sfido, quando il marinaio vede il galeone nel cielo, che si possa convincerlo del contrario; ma davanti alla quiete della teoria le incongruenze risultano incolmabili, senza bisogno che le menzioni qui. Cosa mi fa presagire che l’incalzante cavalcata del post-umanesimo sia l’esito di un’allucinazione? Posto di fronte ai paradossi che evoca, il materialismo irrita la coscienza. Come viaggiatori bendati su una strada proiettata verso un muro, che credono di avanzare senza limiti nella medesima direzione, le poco convincenti argomentazioni del nichilismo andranno presto o tardi incontro a una smentita.
Più ci si inoltra nel territorio dell’umano, più aumenta la curva della difficoltà. Si tratta di un fattore da non sottovalutare. Un computer ha fabbricato questa immagine, ma non riuscirebbe a coglierne l’epica tassoniana o il richiamo senecano. In effetti, è una bella allegoria della situazione presente: la zucca nobilitata dalle fogge classiche e la colonna umiliata come sostegno giullaresco. La nuova generazione di strumenti tecnici sostituirà il lavoro e costringerà a ripensare l’economia globale? Può darsi, ma non scomoderei chissà quale rivoluzione in termini culturali. La violenza e la volgarità sono cose di sempre; il martello sul tavolo non fa nulla da sé. Se mi si chiedesse una stima sull’avvenire – benché non mi vanti della patente di futurologo – risponderei che le materie con maggiore probabilità di successo saranno quelle classiche. Il fatto che la fanfara mediatica sostenga il contrario mi rassicura; non seguo nulla di quello che dice, se lo sento per errore rovescio il contenuto per renderlo più credibile. Soltanto ciò che è vero ha sapore di novità. Si può rileggere volentieri una lirica di Pietro Bembo nell’era dello smart-tutto, ma le invenzioni mal concepite dei tecnocrati alla moda puzzano di tomba.
Andrea Meneghel, collaboratore Iassp
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03Oct
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