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Tra il 1914 e il 1915 Franz Kafka scrisse un romanzo nel quale analizzava le distorsioni della legge e della burocrazia, per mettere in risalto i problemi legati al malfunzionamento di uno Stato. “Il processo”, rimasto incompiuto e pubblicato postumo nel 1925, è considerato il suo capolavoro; narra le vicende di Josef K, un impiegato di banca che una mattina viene arrestato nella sua abitazione da due agenti in borghese, senza che alcun capo di imputazione gli venga contestato. La storia racconta le peripezie di K alle prese con il processo, i cui tempi e modi di svolgimento resteranno oscuri fino al culmine della vicenda.
Nel 1939 Dino Buzzati scrisse “Sette piani”, un racconto lungo nel quale si narra del ricovero dell’avvocato Giuseppe Corte in una clinica prestigiosa per curare una “leggerissima forma incipiente” di una malattia non identificata. Anche in questa opera il fine è raccontare l’assurdità della macchina burocratica ospedaliera, nella quale i degenti erano divisi in reparti in base a parametri arbitrari e vaghi ed in cui la clinica si presentava caratterizzata da una caotica e lenta burocrazia, portatrice di sventure.
Nel 1973 Martin Albrow, sociologo inglese, pubblicò “Burocrazia”, un saggio nel quale analizzava le caratteristiche generali del fenomeno e divideva la burocrazia in aree semantiche. L’origine del significato del termine viene associato alle grandi rivoluzioni borghesi e al passaggio dagli Stati assoluti agli Stati di diritto, nei quali la pubblica amministrazione non risponde più al volere del sovrano ma alle leggi che garantiscono l’uguaglianza dei cittadini. “Con l’epoca moderna la burocrazia non è più un problema per il governo o per il sovrano, diviene il problema del governo stesso. I mezzi dell’amministrazione sono identificati con il governo e questo mutamento segna la nascita della burocrazia nel suo significato moderno”.
Nella sua analisi, Albrow attribuisce al termine burocrazia 7 significati (burocrazia come organizzazione razionale; burocrazia come inefficienza organizzativa; burocrazia come dominio dei funzionari; burocrazia come pubblica amministrazione; burocrazia come amministrazione da parte dei funzionari; burocrazia come organizzazione; burocrazia come società moderna), ma è possibile dividere le diverse definizioni in tre aree semantiche: la burocrazia come quarta forma di potere, accanto a monarchia, democrazia e aristocrazia; la burocrazia come forma razionale di organizzazione, volta alla massimizzazione dell’efficienza; la burocrazia come forma di disorganizzazione e di mala gestione della res publica.
Kafka e Buzzati aderiscono a questa terza ipotesi e rappresentano la burocrazia come forma distorta di potere in grado di ingannare o annichilire l’azione dei singoli individui. Come fa notare Hanna Arendt nel saggio “Il futuro alle spalle”, in riferimento alla storia del processo senza basi e senza soluzione di continuità in cui si trova coinvolto Josef K: “Kafka conosceva esattamente la situazione politica del suo Paese. Sapeva bene che se uno s’impigliava nella rete dell’apparato burocratico non aveva più scampo. Il dominio della burocrazia aveva come conseguenza che l’interpretazione della legge degenerasse in uno strumento d’arbitrio, mentre un assurdo automatismo nei gradi inferiori dei funzionari suppliva alla cronica inettitudine degli interpreti della legge, un automatismo cui venivano praticamente demandate tutte le vere decisioni”.
L’incertezza del diritto e l’impossibilità di stabilire dei tempi consoni per qualsivoglia pratica amministrativa sono il limite maggiore all’attrazione sul nostro territorio di investimenti esteri e di talenti, figure essenziali per dare vita ad un ambiente competitivo e flessibile. Secondo l’European Quality og Governmenti Index (EQI), un indice calcolato dal Quality of Government Institute (QoG), istituto di ricerca del dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Götheborg, per monitorare la percezione della qualità di un governo, intesa come imparzialità nell’esercizio del potere pubblico sulla base di tre parametri (discriminazione, corruzione e qualità del servizio), l’Italia è terzultima nella classifica dei 36 membri dell’Ocse e la sua macchina burocratica frena la produttività delle imprese e ostacola la crescita del Paese.
Il nostro ecosistema imprenditoriale è composto principalmente da pmi, con una forte estrazione familiare: questo dimostra da un lato la nostra voglia di metterci in gioco e di fare impresa nonostante le difficoltà, ma dall’altro comporta due ordini di criticità, relative al passaggio generazionale e alla trasmigrazione della gestione aziendale su un piano manageriale. Questa scarsa appetibilità delle nostre aziende per i top manager stranieri impedisce di inserirsi a pieno titolo nel mercato globale per scarsa attitudine internazionale.
Per raggiungere l’eccellenza e per creare le condizioni essenziali affinché il merito possa essere prima di tutto riconosciuto e infine emergere è necessario superare la miopia della nostra classe politica, sempre più disinteressata agli stimoli provenienti dai diversi settori dell’imprenditoria e sempre più orientata a mantenere lo status quo attraverso slogan e iniziative prive di concretezza. Uno dei sintomi di questa visione strategica limitata riguarda, per esempio, l’accesso ai fondi stanziati dal Pnrr: il problema nodale sembra essere spendere i soldi, ma non c’è alcun costrutto né alcun progetto per programmare come vadano spesi. Intimamente legata a questa impasse c’è l’insalubre pratica di avanzare proposte di legge che rincorrono l’onda emotiva generata da episodi di cronaca, come sta accadendo per il nuovo codice della strada. Dovremmo, invece, invertire la rotta e basare le nostre scelte future su studi approfonditi, avvalendoci di figure competenti e di alto profilo in grado di osservare le pratiche e le azioni messe in atto negli altri Stati europei e occidentali.
Se fossimo in grado di rinunciare al “politichese” e snellire la burocrazia, intesa come l’arte di rendere difficile il facile attraverso l’inutile, potremmo recidere il legame malsano che lega scelte fondamentali alla ricerca del consenso elettorale immediato e permettere ai talenti di operare, di prendere decisioni e di proiettarci verso il domani con una visione più chiara.
Così come per le aziende è fondamentale spostare il focus dal prodotto al servizio, in modo da attrarre più clienti, per lo Stato diventa essenziale riconoscere l’importanza dell’ascolto attivo, cioè ricreare una relazione con il territorio e i suoi abitanti per intercettare le reali necessità e prevedere delle “cure logistiche”.
La riforma più importante riguarda l’istruzione: le nostre scuole sono slegate dal mondo del lavoro, puntano eccessivamente su una formazione teorica, sono in netto ritardo rispetto alla digitalizzazione e alla ricerca tecnologica, e puntano sulla performance a discapito della possibilità del fallimento. Così come i nostri top manager hanno smesso di sperimentare e di rischiare per garantire continuità, i giovani hanno smesso di osare e di immaginare: la fantasia è un azzardo inutile perché potrebbe condurre all’errore. Fallire è umiliante e produce solo angoscia laddove non viene mostrata ed esaltata la sua utilità, ovvero raggiungere il risultato attraverso l’osservazione e continui accomodamenti.
Se un leader non costruisce la sua autorevolezza attraverso un percorso accidentato, fatto sia di insuccessi che di vittorie, non sarà mai in grado di apprendere cosa sia la determinazione, l’umiltà, lo spirito di sacrificio, il senso del dovere e l’empatia, doti essenziali per guidare una squadra.
Se riuscissimo a ridare valore all’onestà, alla sincerità e alla trasparenza eviteremmo il rischio di una classe dirigente assoggettata alla gestione emotiva del quotidiano e senza alcuna capacità di visione che riguardi il prossimo futuro. Il concetto stesso della leadership dovrebbe essere ribaltato: non è un titolo nobiliare che si tramanda di famiglia in famiglia ma un riconoscimento che si acquisisce sul campo.
Bisogna conoscere e tutelare la propria storia e al tempo stesso usarla per evolversi e per garantirsi un futuro migliore. Dopo la fine della seconda guerra mondiale c’erano macerie disseminate ovunque sul nostro territorio, eppure tra disagi e distruzione i nostri predecessori sono riusciti a scorgere opportunità e a cogliere occasioni, a prendersi la responsabilità di fare.
Per chi non è in grado di modificare il proprio sguardo resta solo l’oscurità, suggerisce Dino Buzzati nel finale del suo racconto. “Come mai la stanza si faceva improvvisamente così buia? Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardò l’orologio, sul comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il capo dall’altra parte, e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce”. Nonostante l’oscurità che sopraggiunge, una domanda continua a risuonare nella testa del protagonista e dei lettori ed è l’unica che permette di immaginare una via di fuga: in quanti anni sarebbe riuscito a risalire fino all’orlo del precipizio?
Matteo Soncini, Direttore Generale delle concessionarie Volvo di Modena e Reggio Emila, MotorsClub
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03Oct
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