26
Jan
Il merito emerge sia dalla qualità della persona che dal processo di coltura sociale. Il primo aspetto è soggettivo ma, se non inserito in un complesso che lo valorizza, difficilmente può emergere autonomamente. L’Italia è un paese che ha dato i natali a molti geni e che genera tuttora giovani bravissimi. Il problema è l’ecosistema che sta intorno ai ragazzi e che dovrebbe essere meritocratico, incentivare la crescita e dare possibilità per esprimersi. Se tutto è collocato all’interno di una scala sociale bloccata, dove gli investimenti sono molto bassi e i neo-laureati scappano all’estero piuttosto che fermarsi nella regione d’origine, il gioco si fa difficile. Ovviamente qui si parla di statistiche, di numeri e ci sono le eccezioni, ma tendenzialmente la genetica è abbastanza distribuita nel mondo e quello che fa la differenza sono le istituzioni di formazione, prima di tutto la famiglia e la scuola. La possibilità di far crescere i giovani in certi contesti, elevati in termini di preparazione culturale e opportunità lavorative, dovrebbe essere una priorità per l’Italia, che è spaccata in due fra un Nord decisamente più attrattivo e un Sud che lo è poco.
A proposito di questa menzione del Sud, il saldo dell’espatrio dei neo-laureati è scoraggiante. Pare che fondamentalmente non ci sia lavoro e che, quindi, quello che c’è sia sottopagato. I giovani di 25 anni, senza una famiglia, che vedono scarse opportunità, cosa potrebbero fare altrimenti che scappare a Milano piuttosto che a Londra? Si leggono documenti che riportano le retribuzioni medie percepite; effettivamente, i neolaureati di secondo livello all’estero possono percepire anche 1968 € netti al mese; un 41% in più rispetto ai 1384 € dell’Italia. Come può un ragazzo in Italia sopravvivere da solo contando esclusivamente su quelle cifre? La vita a Milano può essere anche peggiore, nel senso che gli stipendi sono più alti ma il costo della vita è relativamente maggiore. Da residente ormai da generazioni devo dire che il costo della vita milanese è aumentato e sta trasformando l’attrattiva della città in una trappola. Giovani con uno stipendio al limite che dormono in monolocali hanno poche possibilità di crescere. Vent’anni fa un giovane mediamente riusciva a pagarsi la casa con il 60-70 % dello stipendio; oggigiorno spende il 150% solo per vivere. Questo è il contesto nel quale bisogna inquadrare il discorso sul merito. L’Italia, come dicevo, ha una scala sociale piuttosto ferma. Per crescere ci sono possibilità, ma le famiglie imprenditoriali tendono a legare le ali e anche le multinazionali non aiutano, sebbene giunte in un momento successivo. La Francia, gli Stati Uniti o la Svizzera sono mondi diversi che hanno ciascuno pregi e difetti.
La dinamicità degli Stati Uniti non esiste in Europa; di contro, dopo una certa età, vivere in quel paese diventa problematico, perché nessuno ti dà una mano. Non ci sono qui in Italia nemmeno i paracadute sociali della Svizzera, che ammetto essere molto utili, ma si tratta di un piccolo Paese nel cuore dell’Europa e non occorre gran tempo per capire che non tutti possono insediarvisi. La Francia presenta un contesto un po’ migliore del nostro, leggermente più strutturato, però devo ammettere che ci sono anche specularità negative.
I primi messaggi per potenziare il perfezionamento di sé e la ricerca del merito dovrebbero provenire dalle famiglie, soprattutto nella fascia di età dagli 8 ai 15 anni. Se questi consigli non pervengono, si può certamente rimediare in un altro momento, però se presenti agevolano la fase successiva, che è quella dove subentra la scuola – diciamo dei 15 anni fino ai 22 – quando i ragazzi cominciano a guardare il mondo intorno. Il discorso etico, per esempio, è molto importante. I ragazzi sono sempre più spesso “bombardati” dai social media e si sentono sotto pressione. Hanno moltissimi impegni: calcio, tennis, cento materie, lezioni di inglese, corso di latino e si trovano ad avere sempre qualche impegno. I libri sono di un livello nettamente superiore rispetto a quelli che usava la mia generazione, però forse non c’è il tempo di interiorizzarli.
C’è internet, a cui l’accesso è garantito 24 ore al giorno, dove si trovano un sacco di informazioni, praticamente delle enciclopedie complete, ma fra le quali c’è anche molto rumore, molta inadeguatezza. Prendiamo un social come tic toc, che è basato su un algoritmo che pilota i giovani occidentali verso contenuti, diciamocelo, un po’ sciocchi. So che al Congresso degli Stati Uniti è in elaborazione una legge per vietare tic toc almeno ai minori di 15 anni. È, secondo me, in quella fascia di età che si creano i principi etici. È ovvio che se il materiale culturale su cui crescono questi ragazzi sono sciocchezze, la competenza etica e morale che si sviluppa sarà debole. Questo quotidiano strumento di distrazione andrebbe eliminato. Ci sono anche degli aspetti positivi, dal momento che i social permettono a tante persone di esprimersi in modo apparentemente democratico, che poi si rivela non essere molto democratico. Se tutto quello che si fa su quelle piattaforme è gratis, significa che il prodotto da vendere è l’utente stesso. Un adulto può capire questa dinamica, ma forse un giovane non è ancora adeguatamente formato. I docenti dovrebbero essere punti di riferimento ed educatori più stabili, perché molto spesso i nostri figli li cambiano, anche ogni anno. Fondamentalmente, li sotto-pagano e quindi è difficile creare un ambiente per incentivare docenti di qualità. Su una decina, in media due o tre sono veramente validi, gli altri si attestano su un livello sufficiente. L’università è il secondo ambiente che li circonda.
Città come Milano o Ginevra sono stimolanti, e anche Roma lo è a modo proprio, ma ci sono altri luoghi dove mancano i teatri, le manifestazioni culturali e tutto appare molto più piatto per chi voglia stimolare il proprio senso di intraprendenza. Siamo animali che apprendono dagli esempi ed è ovvio che se questi esempi vengono a mancare, l’influenza positiva dell’etica, nel campo per esempio del denaro, diventa più difficile. Ritengo molto discutibile l’ottica secondo cui possedere del denaro equivale ad aver raggiunto il successo. L’abbiamo voluto, in un certo senso, convertendo la società del passato in una nettamente capitalistica di impronta americana. Le possibilità che i quindicenni odierni hanno, per esempio entrare in un supermercato e trovare tutta l’offerta che si riscontra adesso, un tempo non esistevano. Occorre per contro accettare di far parte di una giostra che corre sempre più velocemente, per cui bisogna attrezzarsi, essere competitivi e far valere il “just do it”.
Quanto agli istituti più tradizionali di formazione, la prima cosa da fare è creare le fondamenta. C’è l’istruzione, che non è nozionismo, e poi c’è la capacità relazionale, che non riguarda tanto l’emozione, quanto le competenze. Senza la capacità di ragionare criticamente e analizzare un problema, anche se si possiedono delle conoscenze scientifiche o umanistiche, non si viaggia molto lontano. Oggi siamo abituati a cercare tutto autonomamente su internet, quindi sussiste per chiunque la possibilità di accedere a queste informazioni; bisogna però vedere se l’educando è in grado di estrarre, da una massa di dati, le informazioni corrette e utili per le proprie indagini. In secondo luogo, c’è la necessità di sviluppare un ragionamento proprio, che può essere umanistico, scientifico o quant’altro, ma individuale, innovativo. Se uno studente di fisica del liceo impara la propria materia può conoscere le leggi di Newton, ma capirle e applicarle è un’altra cosa; allo stesso modo, leggere un libro è diverso da riuscire a interpretarlo in modo profondo. Tutto si situa all’interno di una evoluzione: passare alla scrittura – cioè alla fase creativa – senza prima aver letto libri, sarebbe un grande errore. Prima si guarda a ciò che è stato prodotto in passato, poi si può adottare uno stile creativo. Riassumendo, si tratta di acquisire delle conoscenze, sviluppare delle capacità di analisi e di pensiero critico, infine produrre qualcosa di nuovo. Dovrebbe essere fatto dal liceo all’università. Avendo vissuto l’ambiente del Politecnico di Milano, posso dire che non tutti quelli che ne escono sanno progettare, perché non l’hanno mai fatto.
È naturale e non serve sorprendersi: anche un laureato di una facoltà umanistica non necessariamente è in grado di scrivere un pezzo di letteratura. Il processo pratico è molto laborioso: si fa un tentativo, poi un altro e via dicendo, finché si apprende cosa c’è da fare e in che ordine e si può tentare qualcosa di veramente proprio. Questo, a mio giudizio, è il percorso che porta al merito. Il merito altro non è che l’esternazione di qualcosa di non semplicemente ripetitivo rispetto al passato, ma un contributo che la persona può dare. Ovviamente, arrivato alla fine della scala, se non c’è la struttura sociale che permette di esprimere utilmente qualcosa, l’ambizione svanisce in una nube di fumo. Se una persona vuole fare lo scrittore, ma non c’è nessuno per finanziarlo, diventa come molti fanno editore di se stesso, concludendo di solito il tentativo in un fallimento economico; oppure trova una casa che lo finanzi, e in Italia è molto difficile. Oggigiorno si scrivono libri digitali e auto-pubblicati, che gli autori stessi provano a sponsorizzare, ma nel mare grande c’è anche molta produzione di bassa qualità. Scrivendo in lingua italiana, le possibilità di vivere con la propria scrittura sono molto basse; vendere, nelle più rosee aspettative, 15.000 copie non è minimamente sufficiente. Se la pubblicazione avviene in inglese, e quindi è aperta al mercato anglosassone, le copie vendute possono salire anche a 200.000. Ecco che un giovane scrittore ha la possibilità, volendo, di vivere del proprio lavoro. Analogamente, se si volesse fare ricerca sulla fisica nucleare, i posti in Italia sono limitati, ma all’estero qualcosa si può trovare. Dipende da come è strutturata la società. Se si vuole trovare in breve tempo un posto, per esempio nella ricerca, suggerisco di porre attenzione alla tesi di laurea, che è praticamente la prima introduzione al mondo del lavoro. Dipende sempre dall’attenzione dell’Università per gli aspetti occupazionali, la quale dovrebbe creare più opportunità e non mandare i propri saluti dopo il conseguimento della laurea. Ciascuno di noi dovrebbe pensare al proprio percorso post-accademico.
Qui in Italia, per esempio, negli ultimi anni sono stati introdotti i gruppi di alumni, che aumentano notevolmente le possibilità di trovare occupazione e associarsi per i progetti di impresa. Tempo fa non esistevano ed è una moda culturale che riprende il modello americano di Harvard, dove la rete degli alumni ha un valore pazzesco. Gli studenti dei college americani fanno “network”, come si dice in quelle zone, con collegamenti e colloqui, generando possibilità di lavoro concrete.
Osserviamo il modello francese, del cui funzionamento sono a conoscenza. Il sistema francese funziona perché ci sono le Grand Ecole che, dopo il diploma, forniscono accesso a un certo numero non piccolo di studenti dopo i percorsi preparatori. Alla fine, un 10% vi accede ed è un sistema molto meritocratico. Ci sono la Grand École de Paris, il grande collegio di Lione e molte altre scuole che offrono un percorso agevolato per prestare poi servizio a livello nazionale per lo Stato entro un paio di anni dall’accettazione. Queste università non costano nemmeno un’esagerazione. Il sistema americano è molto meno democratico, poiché è popolato da università spaziali dove la competizione è estrema e occorre avere una grande disponibilità economica per potervi entrare. C’è il famoso campus di Harvard, che è come una piccola città dove ci sono la business school, la facoltà di medicina e via dicendo; una realtà bellissima, ma per studiare medicina ad Harvard non si spende meno di 1 milione di euro.
Per conseguire un baccalaureato si spendono circa 150.000 €. Le uniche a cui vale la pena accedere sono le scuole di specializzazione, che aiutano effettivamente a trovare un impiego. Ci sono le borse di studio, in media il 10% o 15% del totale, ma le possibilità di ottenerle sono davvero minime, perché i posti sono circa 70 e alla graduatoria partecipano moltissimi concorrenti, anche dall’estero. In quelle università, insomma, ci vanno i migliori o quelli che hanno i soldi. Non so, dunque, quanto merito ci sia, a parte per i pochissimi che se lo possono permettere o per coloro che ottengono la borsa di studio su una popolazione di 350 milioni di abitanti. Le grandi scuole francesi, come dicevo, anche per il fatto che sono distribuite uniformemente sul territorio nazionale, e poiché chiedono qualche migliaio di euro per completare il ciclo di studi, sono più coerenti con la mia idea di merito. Anche in Svizzera le scuole sono molto meritocratiche; non chiedono un eccessivo investimento e soprattutto offrono potenziali posti di lavoro a livello internazionale, ma sono poche, fra cui Losanna e Zurigo. In Italia, invece, siamo cresciuti con l’università uguale per tutti.
Un’eccezione è stata proprio il Politecnico di Milano, dove il processo di selezione principale avveniva dopo l’ammissione. Si sa che le aule di 600 persone si riducono di circa 2/3 dopo i primi sei mesi e solo pochi, al termine del percorso, riescono a laurearsi. È richiesto un impegno costante per superare gli esami. Questi ultimi non sono eccessivamente complicati, ma offrono una formazione anche teorica che altrove è difficile trovare: si svolgono prove di analisi a più livelli, che per molti non sono strumentali alla carriera lavorativa, in quanto servono soprattutto per la ricerca, ma contribuiscono alla cultura della materia. Questo è il modello più significativo che mi riesce menzionare nel panorama nazionale. In conclusione, è ovvio che i soldi avvantaggino in ogni circostanza, ma nonostante questo, per promuovere la meritocrazia in Italia, suggerisco i modelli perfettamente replicabili delle grandi scuole francesi o delle Università svizzere. Anche il sistema americano della Ivy League è plausibile, ma dovrebbe essere reso più democratico e incoraggiante.
Se c’è un valore che desidero recuperare dalla classe che nel Secondo Dopoguerra ha pilotato la ripartenza del Paese, questo è la capacità di soffrire. Le generazioni attraversano fasi alterne: i miei nonni hanno fatto la guerra e non avevano quello che noi abbiamo oggi e nemmeno quello che avevano i miei bisnonni. Negli anni ‘70 noi abbiamo vissuto il boom economico più dei nostri padri; in quei contesti si viene messi alla prova ma si ha anche la possibilità di mostrare quanto si vale. Non è una certezza, ma una difficoltà sormontabile, attraverso la quale mettersi alla prova e vedere quanto effettivamente si riesce ad andare a fondo. Ci si doveva impegnare e anche soffrire, ma si trattava di un percorso che offriva più opportunità. Non mi piace pensare che una certa generazione sia stata più brava, semplicemente ha trovato un contesto dove la maggior parte degli spazi economici erano distrutti e, per istinto di sopravvivenza, ha cominciato a “rimboccarsi le maniche”, costruire e investire, accettando di basare le proprie esigenze sul poco che dalla guerra è emerso. Quegli anni hanno creato una fase di prosperità e i giovani che sono cresciuti nel benessere sono stati messi meno alla prova.
Per qualche decennio si poteva tuttavia ancora beneficiare del grande slancio dell’economia. Negli anni ‘80 pareva che Milano spaccasse il mondo e ci si dedicava anche all’edonismo, alla voglia di apparire. Dopo “Mani Pulite”, nulla più di tutto questo; Milano è stata rasa al suolo ed è rimasta ferma per sette anni, durante i quali la classe imprenditoriale fu bloccata. Ora il ciclo sta ripartendo, ma molto lentamente e con prezzi di partenza più alti. Il contesto odierno è, come dicevo, per taluni aspetti più agevole, perché ci sono più opportunità – nessuno soffre la fame e le famiglie non devono temere che una bomba distrugga l’azienda su cui hanno collocato tutte le risorse – ma si dovrebbe recuperare la voglia di costruire e mostrare le proprie capacità dai 20 ai 50 anni, quando la gioventù è in piene forze. Occorrono però le strutture emancipative e una società intorno che permetta di esprimersi. Per fare un parallelo, ho osservato che in India gli imprenditori hanno vissuto nei primi anni 2000 un progresso economico simile a quello dell’Italia. La situazione di partenza era completamente diversa, dal momento che prima del passaggio di millennio l’India era davvero il terzo mondo. Un imprenditore in un simile contesto non incontra troppe barriere di ingresso, perché lo Stato non è burocratizzato e non ostacola, pertanto la crescita è molto rapida e i discorsi che si ascoltano sono simili a quelli della generazione nata negli anni ’40.
Un paese con un Pil inferiore all’Italia, ma con una popolazione di quasi 1 miliardo di persone, offre notevoli occasioni, in un ecosistema ancora molto poco competitivo e arretrato sotto il profilo della legislazione; la corsa al profitto è sfrenata, in attesa che l’economia maturi e che siffatte situazioni si stabilizzino. A quel punto comincia a subentrare il problema del costo del lavoro e si presentano i noti casi di tutte le società occidentali. Detto in sintesi, quello che potrebbe “curare” un giovane odierno è la possibilità di essere collocato in una società che non sia completamente satura sotto il profilo industriale, con un PIL praticamente piatto che cresce dell’1%, mentre l’inflazione aumenta del 10% – che, tradotto, significa che siamo in perdita. I paesi occidentali sono in una condizione di plateau: hanno raggiunto l’apice del PIL e si attestano su una linea di stabilità. La crescita come viene intesa oggi è ridicola e il PIL non può più essere lo strumento per misurare il successo di una politica economica. L’economia è diventata una questione di aggiustamento di bilancio, a cui non interessa più far crescere i giovani. Un altro problema dell’Italia è il fatto che la maggior parte degli attori sono piccole e medie imprese: aziende essenzialmente di famiglia, dove il passaggio generazionale avviene all’interno del nucleo originale. Ne consegue poco risalto dato al merito e poca propensione all’istruzione. Per esempio, il dottorato in Italia non è quasi mai riconosciuto ai fini della retribuzione; in Svizzera, a parità di lavoro, con un Phd si ricevono 1000 franchi in più al mese. Lì sanno cosa vuol dire dare valore all’istruzione. Il 60% dei lavoratori in Svizzera possiede una laurea e parla più lingue: sono naturalmente multilingue perché nei vari cantoni si parlano l’italiano, il francese o il tedesco.
C’è il maggior numero di pubblicazioni pro capite, correlato alla pratica diffusa della ricerca. Anche in una stazione l’impressione è quella di trovarsi fra persone che hanno studiato. Negli anni ’90 in Italia la percentuale dei diplomati era circa il 50%, che uniti al 5% dei laureati lasciavano il restante spazio demografico a coloro che avevano solo la terza media o le elementari. Non vuol dire necessariamente che gli svizzeri siano più bravi, ma abbassano i requisiti per poter frequentare le università. È chiaro che in Italia il livello medio, per esempio degli ingegneri, con la selezione a cui ho accennato prima, risulti relativamente alto; noi siamo fra i migliori a dire il vero quanto a capacità individuali, ma ci troviamo in imbarazzo quando la Cina mette in campo 1 milione di ingegneri, dal settore aerospaziale a quello dell’intelligenza artificiale; non si può competere con simili numeri, anche se i nostri ingegneri sono sopra la media.
La classe imprenditoriale dovrebbe assolutamente promuovere lo studio dell’inglese a partire dalle scuole. Non perché questo presenti una linea di approfondimento migliore rispetto agli studi in lingua italiana, ma per aprire le porte anche ai mercati e ai corsi esteri. Oggi si parla inglese un po’ in tutto il mondo e questa lingua permette, per esempio, di frequentare un corso a Ginevra senza la padronanza del tedesco. Tutti possiamo recarci all’estero e fare esperienza; poi ovviamente si può tornare in Italia o cercare altre zone per lo sviluppo, ma credo che il futuro mercato del lavoro per gli italiani sia come minimo l’Europa. Le occasioni per viaggiare esistono e sono numerose, quindi perché non approfittarne? Nel processo di valorizzazione del merito, sento di dover escludere l’apporto della classe politica, di cui non ho una grande opinione, a qualunque schieramento appartenga. I migliori, a mio giudizio, non entrano nella politica, perché è piena di difetti e dovrebbe essere ricostruita dalle fondamenta. Un tempo, per quanto i partiti avessero problemi anche spaventosi, c’erano scuole politiche di alto livello; da quando hanno tolto i finanziamenti ai partiti, invece, il populismo occupa un ruolo maggiore per la raccolta dei voti. Si tratta di approvare o eliminare una o più leggi, processo che alla fine non porta da nessuna parte e la gente si accorge del nulla su cui si fonda la politica. Dovrebbe esserci un forte ricambio all’interno di questi gruppi, invece chi oggi inizia e cerca di scalare la gerarchia viene frenato prima di raggiungere risultati.
Gli aspiranti politici meritevoli, dunque, cambiano strada e cercano di investire nel privato, con il risultato che il livello della classe dirigente non viene mai alzato. La realtà privata può senza dubbio avere un ruolo positivo nel mettere in comunicazione la parte imprenditoriale, tecnica e scientifica della società con i policy maker. Nel caso dell’intelligence economica, si possono raggruppare degli intellettuali presso un tavolo di dialogo insieme con alcuni imprenditori esperti, per consentire un flusso di informazioni da analizzare in un sistema complesso e produrre un libro o una serie di lezioni; meglio ancora sarebbe trasferire alla classe politica suggerimenti attuabili. Ricordo quando, nel 2018, abbiamo realizzato con lo IASSP un libro sull’innovazione. In quegli anni non c’erano ancora i venture capitalist che ci sono oggi, perché questo ecosistema innovativo si stava ancora creando. All’epoca gli investimenti annuali per l’innovazione ammontavano a circa 200 milioni di euro, mentre oggi sono arrivati a 2 miliardi. Avevamo deciso di mettere assieme dopo i seminari questa informazione in un libro e ragionare sulle cose da fare per creare degli acceleratori legati all’università e alle imprese. Si discuteva di mentalità imprenditoriale, di attrattività dei progetti e di canali nazionali per alimentarli. Ciò è stato messo a fattore comune e, per una successione di provvedimenti, qualche effetto è stato ottenuto, dalla defiscalizzazione per gli investimenti in start-up all’aumento di questi ultimi di circa 10 volte in cinque anni. È stato il lavoro di un gruppo di persone in sinergia, con occasionali critiche, spesso costruttive, e tanta voglia di lavorare per il futuro del Paese. Riassumendo: si mettono in comunicazione gli esperti di un settore intorno a un progetto, si estende l’invito ad altri istituti e si cerca di fare massa critica, poi si presenta il progetto ai decisori politici e in un certo numero di anni si cerca di ottenere risultati.
Paolo Berra, Fisico Nucleare, Imprenditore, Angel Investor. Docente IASSP
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