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Jan

Il populismo non sopporta le sconfitte.
Carlo Bordone, in La lettura, Corriere della Sera, 7 gennaio 2024, pag 9.
“Populismo e società civile: la sfida alla democrazia costituzionale”, di Andrew Arato, n. 1944 (Buda-pest, New York) e Cohen, n.1946.
I populismi richiedono continuamente le consultazioni elettorali o il parere degli adepti sui social. C’è una proporzionalità diretta tra crescita del populismo e diffusione della comunicazione in rete.
Non è più necessaria l’intermediazione. Non solo in politica.
In politica è scomparso l’intellettuale organico, la figura facente parte di un’élite che realizzava l’intermediazione e indicava la strada da seguire.
Preferire la democrazia diretta (non rappresentativa) è espressione della convinzione che le masse popolari non abbiano bisogno di tutori e di interpreti (aristocrazia), confermando la fiducia assoluta nella maturità dei singoli individui e, in fondo, l’ostilità verso le élite.
Se il populismo è sinonimo di democrazia diretta, ha anch’esso bisogno di un leader. Ci vuole un trasci-natore, un capofila che tiene insieme la diversità di opinioni.
Commento
A ben vedere c’è una sorta di cortocircuito. Dal popolo direttamente al leader, escludendo le élite, cioè l’aristocrazia.
Per chi continua a ritenere che sia necessaria una classe dirigente, una élite che deve essere educata e istruita per guidare i processi politici, sociali ed economici, è un fallimento totale. Perché questa élite, secondo il saggio di Arato e Cohen, viene totalmente bypassata.
Quindi, per chi crede nell’aristocrazia del sapere, nel merito, nei migliori, è necessario prendere atto del-la situazione. E adeguarsi…
Per ripristinare un governo dei migliori, dei più idonei per le varie posizioni di comando, per una aristocrazia del merito.
Ma è necessario innanzitutto individuare e precisare dei criteri capaci di indicare un merito trasparente, misurabile e affidabile.
Come nelle competizioni sportive, nel tennis, nell’atletica. Si sa chi è il più bravo. E c’è una gerarchia. Si stilano annualmente delle graduatorie e delle classifiche, che vengono periodicamente aggiornate sulla base dei risultati conseguiti.
Altrimenti si passa direttamente dal numero 1 alla massa di tutti gli altri.
Secondo Max Weber, quando il compito di mediatore è svolto da una figura carismatica, si crea una tipologia di potere che non è propriamente democratica.
E allora: o si fa finta di non vedere e quindi di essere ipocriti, compiacendosi del significato di democrazia, come governo del popolo o di tutti. Oppure si corre ai ripari.
Il problema vero è che è morta la democrazia rappresentativa, quella che trovava la sua sede naturale di interazione in un’assemblea parlamentare, sede nobile di discussione.
“Dio è morto”, gridava Nietzsche oltre un secolo fa. E ora ci si accorge che è morta anche la democrazia. Perché sono di fatto i partiti e i capi-partito a scegliere i singoli rappresentanti della volontà popola-re, per cui il demos non ha più potere reale di delega.
La storia ha insegnato a diffidare dei capi carismatici capaci di muovere le folle, facendo leva sull’emozione e sulla propaganda.
Lo stesso leader, per essere veramente carismatico e benaccetto dai seguaci, deve essere un uomo del popolo, venire dal popolo, parlare un linguaggio popolare, facilmente comprensibile, senza eccesso di ter-mini aulici o scientifici.
E deve “avere difetti”, in maniera che la gente possa identificarsi con lui, mentre nel contempo il leader di-venta sempre più omologo ai seguaci (omologazione di massa, identificazione del popolo col leader come espressione reale di uguaglianza).
Inoltre, il leader carismatico deve dimostrare disprezzo verso l’altro, il nemico del popolo, costruito e identificato ad arte, e su cui convogliare il pubblico ludibrio nel corso delle manifestazioni di massa o delle adunate popolari.
Il ricorso al potere carismatico è un’idea presa a prestito da altri sistemi politici, in particolare dal sistema autoritario, in quanto il populismo non ha una propria forma di potere “raccontabile” agli altri.
“Come si può pensare oggi al superamento del populismo?” si domandano Arato e Cohen.
È un dato di fatto che il populismo, nonostante le critiche, sia molto diffuso nel mondo.
Perché? Perché non è né di destra, né di sinistra. E quindi è capace di equilibrismi insostenibili. Garantisce la democrazia formale, ma tenta il colpo di Stato quando teme di perdere il potere (un esempio per tutti, l’assalto al Campidoglio a Washington, stimolato dal candidato che riteneva di aver perso le elezioni ingiustamente).
Il populismo fa sempre leva sul consenso, la difesa degli interessi del popolo, sulla demagogia o la mozione degli affetti (emozioni e sentimenti). Ha però un numero ristretto di opzioni: mobilitazione, parti-to, governo, regime.
Mentre i regimi come il fascismo e il comunismo del passato, una volta al potere, impedirono di bandire nuove elezioni, il populismo moderno al contrario le mantiene, confidando nella forza del consenso po-polare.
Ma il populismo, malgrado l’apparente difesa della democrazia, quella in cui “1 vale 1”, e la pretesa di difendere gli interessi popolari, resta un movimento di opposizione, che mira a de-costruire il sistema democratico, senza riuscire però ad offrire un sistema alternativo.
Secondo Cohen, il difficile compito di come superare il populismo si può trovare in una forma di demo-crazia pluralistica, in cui far convergere poi posizioni distanti tra loro.
Quello che Cohen propone è una “foglia di fico” per coprire la vergogna. È una parola per mascherare il fallimento.
Infatti, rimane irrisolta la questione: “Perché il populismo si è affermato e diffuso così rapidamente?” L’unica risposta plausibile a questa domanda è che la democrazia rappresentativa non funziona.
Secondo la mia visione, come il comunismo, la democrazia rappresentativa è contraria alla natura umana. Almeno a quella nel mondo reale degli individui strutturalmente diversi l’uno dall’altro e analizzabili con l’approccio clinico e fisiopatologico.
Bisogna prendere atto di come è fatto l’uomo e di “che cosa ci rende veramente umani”, al di là delle meta-narrazioni fin qui fatte passare come scienza consolidata sull’origine della sapienza matura, sull’uomo come essere razionale, governato dalla logica, rispondente al linguaggio basato sul significato delle parole che hanno come atomo fondamentale il fonema, sulla generosità erga omnes e l’altruismo. L’esperienza ha dimostrato che si trattava di metanarrazioni facilmente contestabili e non di verità inconfutabili.
L’uomo del mondo reale non è “naturalmente” comunista. Ma nemmeno democratico. Infatti, quando può, il singolo più forte e potente cerca di prendere per sé tutto il potere.
Allora meglio optare per il male minore. Dismettere la democrazia (quella dell’1 vale1) come chimera o illusione bella e impossibile.
Piuttosto che accettare un regime autoritario (il governo di uno solo, anche se fa finta di governare in quanto ha ricevuto il mandato dal popolo), meglio prendere atto che la democrazia “non ha retto alla prova del tempo”. Si è disciolta come neve al sole.
Il motivo è che ha la tendenza intrinseca a trasformarsi in populismo ed eventualmente in dittatura dell’uomo solo al comando. La democrazia tende ad essere presa e guidata da mani abili o furbe e ad avere bisogno di un leader maximo, carismatico, con cui la massa può identificarsi.
Forse è arrivato il tempo di “dare un calcio” alle ipocrisie e alle falsità del politically correct e di propugnare non il governo democratico, che sta virando verso il governo del ca-po che gestisce in maniera discrezionale, ma il governo del merito, come male minore. Ma poiché “migliori” o “più capaci e meritevoli” è una parola scivolosa, il problema vero è rappresentato dai criteri di merito e di valutazione del merito.
Piuttosto che una democrazia demagogica che non funziona, io propongo un vero “go-verno dei migliori”. Con o senza il consenso plebiscitario di tutti (del famigerato 1 che vale 1).
È necessario stilare regole trasparenti, congrue e riproducibili per stabilire “which is which”, cioè chi è quello che deve occupare il grado più alto di una certa gerarchia setto-riale, magari lasciando o prevedendo un criterio di alternanza codificato, (o una scaden-za del mandato dopo un certo periodo), senza bisogno della consultazione popolare ad ogni piè sospinto.
Come criterio potrebbe essere adeguato scegliere semplicemente all’interno di una cinquina o decina di meritevoli, lasciando come criterio di equilibrio la necessità dell’alternanza periodica.
Anche il “più bravo” non deve governare per sempre, altrimenti si cade nella dittatura.
Va sottolineato che coloro i quali aspirano ad approntare scuole di formazione, università, corsi di studi avanzati per formare le élite, oltre ad occuparsi dei contenuti e delle discipline da insegnare e da trasmettere, insieme col sapere critico (e lo scetticismo, che è l’opposto del dogmatismo dei “pecoroni”, che sono la preda privilegiata dei cosiddetti leader carismatici) devono interrogarsi anche sul fatto se sono pronti a lottare contro l’ipocrisia e a cantare il De Profundis della democrazia, così come l’abbiamo sperimenta-ta finora, soprattutto negli ultimi periodi di populismo galoppante.
Il problema reale non è credere nella democrazia diretta, o più o meno rappresentativa, oppure vagheggiare un ritorno alle origini della democrazia, come quella sperimentata nell’antica Grecia, nelle piccole città-stato.
Nell’era della globalizzazione e con un pianeta-terra popolato da 8 Miliardi di abitanti, la democrazia ha assunto i contorni di una parola vuota piuttosto che ambigua o misteriosa, con cui riempirsi la bocca. Ma se si vuole dare un significato reale, applicabile nel mondo dei paesi più sviluppati del XXI secolo, bisogna associare contestualmente alla democra-zia – che si dispiega nel mondo attuale – i media, le piattaforme digitali, e gli strumenti di comunicazione o persuasione di massa. E allora la democrazia, che sia più o meno rap-presentativa, con deleghe più o meno ampie da parte di elettori che scelgono liberamente i propri delegati, per diventare strumento di governo della cosa pubblica, deve tener conto dei mezzi e delle sovrastrutture odierne.
Non si può fare richiami nostalgici a Marx o a Gramsci, che non hanno mai governato, e per cui esisteva solo un programma di lotta, con la cieca fiducia nel sol dell’avvenire e nell’avvento ineluttabile della “dittatura del proletariato”. Quando il comunismo ha prova-to a diventare sistema di governo, ha preso di volta in volta le sembianze dei “piani eco-nomici quinquennali”, delle purghe e della dittatura di Stalin, oppure dell’osservanza pun-tuale degli insegnamenti del libretto rosso di Mao, incluso il divieto di avere più di un fi-glio per coppia, o del governo per un trentennio di Cuba da parte di Fidel Castro, o dei governi ad impronta comunista di alcuni altri paesi africani o latino americani.
Analogamente, dopo le illusioni egualitarie della Rivoluzione francese, si è assistito allo sviluppo delle istanze più pragmatiche insite nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America, i quali, invece che “égalité e fraternité” propugnavano, oltre alla libertà, il più prosaico “pursuit of happiness”, cioè il perseguimento della felicità del sin-golo individuo.
Oggi, in pieno boom di “comunità desideranti”, sempre più convinte di potere richiedere diritti senza corrispondenti doveri, la democrazia deve fare i conti non con le parole o il significato etimologico di democrazia come governo del popolo, ma con l’edonismo ga-loppante e la convinzione delle nuove generazioni di poter avere tutto e subito, senza fa-tica e senza sacrificio. Solo reclamandolo come diritto. Diritto al lavoro da parte di uno Stato democratico, diritto al salario minimo, diritto al reddito di cittadinanza. Diritto alla protezione delle minoranze, che spesso si traduce nell’egemonia delle minoranze stesse che “scomunicano” l’operato della maggioranza.
Nelson Rockefeller, uno dei più “esecrati” interpreti dell’Imperialismo del Dollaro, se-condo le moderne esegesi della sinistra occidentale, negli anni ’30 del Novecento, in vi-cinanza della statua di Prometeo, posta al centro del gruppo di grattacieli che costituisce il Rockefeller Center, fece incidere le seguenti parole: “Noi non vogliamo una nazione che garantisca a tutti un reddito, (magari distribuendo a ciascuno secondo i suoi bisogni), ma vogliamo garantire a ciascuno la possibilità di guadagnarsi il da vivere col sudore della propria fronte.
In termini più attuali, si può leggere come il diritto ad avere un certo numero di opportu-nità.. Più o meno pari per tutti, oppure sensibilmente diverse. Dipende. E su questo si può fare una più attenta riflessione e provare ad incidere. Ma quella inscritta su metallo al Rockefeller Center era una definizione della democrazia americana prima della Seconda guerra mondiale.
Oggi la democrazia diretta – o quella degli albori – non è più praticabile. Se si insiste col voto popolare e con il rinvio continuo alla libera consultazione dei cittadini, si favorisce solo a parole una maggiore libertà. Ma, nella pratica, come dimostrano i fatti, si trasfor-mano le democrazie, anche quelle di più lunga durata e di principi consolidati, in populi-smi e in partiti o masse popolari che richiedono a gran voce un leader da cui essere sedot-ti (vedi F Cetta “Perchè comandano i folli e noi li facciamo comandare”, Pagine, 2021 e 2022).
Si può provare a riscrivere le regole del bilanciamento tra i poteri, si possono precisare meglio pesi e contrappesi. Ma non si possono far tornare indietro le lancette del tempo e della storia. Il progresso tecnologico ha portato Internet, la comunicazione diffusa, l’informazione in tempo reale, le fake news e la possibilità di manipolare con facilità elet-tori non sufficientemente dotati di sapere critico.
Siamo inevitabilmente destinati ad affidarci al governo di “un uomo solo al comando”, che si sceglie la squadra di governo con assoluta discrezionalità.
La sola alternativa efficace (fermo restando che il comandante in capo continuerà ad es-sere scelto dagli elettori delle varie democrazie più col cervello viscerale che col freddo raziocinio) è fare in modo che la squadra che dovrà affiancarlo nel governo emerga per virtù proprie.
E’ questo il punto cruciale. L’unico su cui è possibile agire in concreto. Stabilire nella maniera più chiara – e una volta per tutte – che la squadra di coloro che gestiscono effetti-vamente le problematiche – e che sovrintendono ai destini dello stato-nazione nei suoi gangli più nevralgici – sia costituita da singoli effettivamente qualificati e che provengano da un sottoinsieme selezionato per merito, senza possibilità di errori.
In questo gli Stati Uniti, cioè la democrazia reale più antica, si dimostrano meno vulnera-bili dei più recenti imitatori. Gli USA, ad ogni cambio di amministrazione, attuano lo “spoil system”, cioè la possibilità per il Presidente eletto di dismettere tutti i principali re-sponsabili del precedente governo e sceglierne di nuovi, più fidati, o comunque più ligi ai voleri del nuovo capo, e significativamente diversi, in modo da garantire discontinuità.
Tuttavia, esistono criteri codificati per selezionare il “paniere” all’interno del quale deve essere fatta la scelta. Non si può scegliere con discrezionalità assoluta, ma bisogna che i nominati abbiano dimostrato di possedere alcuni requisiti di competenza specifica e figu-rino nell’ambito dei“top ten” certificati, in una nazione abituata da oltre un secolo a stila-re annualmente le proprie classifiche e le graduatorie di tutto ciò che è misurabile in ma-niera quantitativa. Il possesso di criteri, parametri e marker (indicatori) di merito, codifi-cati e continuamente applicati, rappresenta quindi il prerequisito indispensabile per que-sto tipo di selezione. In altre nazioni, dove tale tipo di graduatorie non viene costantemen-te attuato, anche volendo fare una selezione per merito, risultano aleatori sia i criteri, che gli indicatori.
E si cade più facilmente nella discrezionalità.
Pertanto, al di là di vane diatribe sui diversi tipi di democrazia e sul significato da attri-buire alle varie parole, con cui si continuano a descrivere altre parole, il terreno su cui fo-calizzare l’attenzione per ottenere risultati in grado di migliorare la guida “democratica” di una nazione è perfezionare al massimo i criteri con cui definire e selezionare per merito i più capaci, e consentire a loro – e solo a loro – di gestire i gangli nevralgici della cosa pubblica.
Ripeto, il destino naturale verso cui il populismo porta ineluttabilmente è cadere nelle mani di un dittatore , o di un uomo solo al comando che sceglila sua squadra con la più assoluta discrezionalità.
Se non si può contrastare la scelta “viscerale” del capo carismatico, bisogna approntare una sorta di cintura di sicurezza, per garantire che almeno la squadra di comando emerga per virtù intrinseche dei singoli chiamati a governare, capacità che siano il più possibili oggettive e misurabili, anno dopo anno. Senza cadere nell’ipocrisia di inseguire ad ogni costo la democrazia formale.
Non siamo tutti uguali.
Tanto vale riconoscerlo e decidere convintamente che a guidare gli altri e a tenere la bar-ra dritta siano i più capaci e meritevoli. Ma non perché vengono votati dal popolo, o emergono democraticamente al termine di una consultazione elettorale.
Ma perché sono resi chiari e trasparenti i criteri di identificazione e valutazione del meri-to.
E tutti coloro che ritengono fondatamente di essere titolati sono chiamati a farsi avanti.
E saranno accettati e inclusi. Non necessariamente al primo posto. Ma tra coloro destinati a fare da guida. Sulla base del merito oggettivo. Senza finzioni, ipocrisie o paura di usare determinate parole. Di fatto si viene a prefigurare un’oligarchia o una aristocrazia. Lo sforzo è far in modo che sia un’aristocrazia del merito. Perché tutto è meglio del capo unico incontestabile, o della falsa democrazia che si confonde con la discrezionalità asso-luta.
Per evitare di perder tempo, conviene dedicare risorse ed energie alla messa a punto di criteri valutativi, che devono accompagnare il singolo cittadino nel corso di tutta la vita, (senza buonismi o false ipocrisie). Non si diventa i più capaci dall’oggi al domani. Nem-meno per volontà popolare. Chi era poco dotato o poco esperto non può diventare il più esperto all’improvviso. Ancora una volta, la bontà di un sistema non è nelle enunciazioni generali e nei principi universali, ma nei dettagli. Su come scegliere criteri oggettivi e ri-producibili per scegliere i migliori e su come utilizzare sempre gli stessi criteri in maniera appropriata per selezionare i meritevoli.
Dando per scontato che il governo del popolo, di tutti (dove 1 uno vale 1) ha fatto il suo tempo. E ha dimostrato che non è più in grado di funzionare oggi, nel mondo reale.
Francesco Cetta, Docente e relatore IASSP, già Direttore della Clinica Chirurgica dell’Università di Siena, e Prof a c. Università San Raffaele, Milano
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