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Dec
Ho passato più di 10 giorni in Georgia, dopo aver viaggiato oltre 3200 chilometri in tre settimane senza voli e senza automobile. Sono arrivato a Tbilisi, la capitale, visitando diverse altre città, tra cui Batumi, Kutaisi, Mestia, nell’alto Caucaso. La strada che si snoda tra la Slovenia, la Croazia, la Serbia, e la Bulgaria arriva al Mar Nero, imponendo una traversata compiuta a bordo di una nave commerciale cargo. Quattro giorni di mare senza comunicazioni, totalmente isolato. Lo scopo del pellegrinaggio era arrivare personalmente ai Patriarcati di Serbia, Bulgaria, Georgia e Armenia per portare il mio progetto di riflessione sull’unità dei popoli (confluito nel libro, tradotto in inglese e russo, dal titolo -Voi siete Uno-).
I popoli cristiani sono frammentati e alienati gli uni agli altri, separazione spesso fomentata ad arte, per interessi particolari, a seconda dello scenario internazionale. Dalla Georgia si percepisce un vento molto filoamericano e la Russia è vista come una minaccia di tipo terroristico. Una sensazione avuta anche alcuni mesi fa durante un pellegrinaggio a Samarkand in Uzbekistan. Sulle montagne del Caucaso, a quasi 2.000 metri di altitudine, ho potuto riscontrare l’apice di questa accesa antipatia verso la Russia. Ricordiamo che in Georgia, fino agli anni ’90, tutti parlavano il russo e si sentivano parte di quella nazione, fino a quando la Georgia ha raggiunto l’indipendenza. Ora alla domanda “Chi è il russo?” rispondono: il russo aggressivo, il russo terrorista, il russo “nemico”. In Serbia, all’opposto, c’è una fortissima componente filorussa, dovuta anche alla vicinanza fra il Patriarcato ortodosso serbo e quello russo.
La guerra e i tumulti religiosi non sono nuovi in seno alla Chiesa Ortodossa. Pensiamo allo scisma tra la Chiesa russa e quella greca o a quando il Patriarcato di Costantinopoli ha riconosciuto l’autonomia della Chiesa ucraina, causando una frattura. In Georgia, invece, il risentimento è politico ed echeggia il comunismo anti-clericale degli anni ’90, che condannava con violenza il culto, entrando in conflitto con il nucleo forte del sentimento religioso georgiano, dotato di una fede inossidabile. C’è uno scheletro nell’armadio: il fatto che Iosif Stalin nacque a Gori, in Georgia, il 6 dicembre 1878. Per il georgiano è una forte vergogna.
Lo scenario è molto delicato. Nella zona nord, al confine con la Cecenia, c’è una striscia pericolosa. La forte presenza di indipendentisti mantiene aperta la sempre viva tensione tra cristiani e musulmani. Al confine est con l’Azerbaijan i media occidentali raccontano di tumulti e
scontri armati tra l’Azerbaijan (musulmano) e l’Armenia (cristiana). C’è una forte solidarietà fra la Georgia e l’Armenia, che arriva a toccare quasi una fratellanza. Gli armeni sono ortodossi, anche se tecnicamente non della Chiesa Ortodossa, perché le Chiese armene sono considerate pre- calcedoniane, cioè separate in seguito al Concilio di Calcedonia. Dopo un approfondimento ulteriore si scopre che il georgiano ha una enorme spiritualità. Non dimentichiamo che la Georgia è la Chiesa più antica del mondo, insieme a quella armena. Negare questo aspetto della cultura, a favore di altre identità (politiche, nazionali, smithiane) è solo propaganda.
In Bulgaria persistono contraddizioni abissali. La parte povera del Paese, che ho attraversato fuori dai grandi centri, presenta una forte religiosità: i riti ortodossi delle chiese locali sembrano impossibili da sradicare dalle coscienze comuni. In centro a Sofia, invece, non ho trovato la benché minima traccia di identità etnica; ci sono solo grandi marchi e aziende multinazionali. Il sentimento anti-russo, anche qui oltre che in Georgia, sembra forzatamente insufflato dall’esterno, perché appare in modo incoerente come obbligo di superare un passato di dipendenza.
Il titolo delle mie pagine di diario dedicate all’Armenia mi sembra ora significativo: “È tutto tranquillo”. In un punto dell’Armenia si toccano tre confini: quello armeno, quello georgiano e quello con l’Azerbaijan. Ammetto che mi sono sentito un po’ teso e mi aspettavo di trovare forze armate e controlli rigidi, tanto in me era radicata l’aspettativa determinata da quello che viene raccontato sull’Armenia da Tv e giornali. Alla dogana il poliziotto, sia in ingresso che in uscita, non mi ha nemmeno chiesto dove andavo; anzi, mi ha sorriso e mi ha dato il benvenuto. Perché – mi sono chiesto – praticamente tutti i conoscenti mi hanno sconsigliato di andare in Armenia? Una agenzia di viaggio mi ha quasi dato del folle diffidandomi dall’andare in quel luogo. Tutto tranquillo in Armenia, almeno nelle zone di cui ho avuto esperienza.
Forze armate e presidi quasi inesistenti. Tranquilli rapporti tra il popolo azero e i georgiani. Ho chiesto a una guida locale se ci fossero tensioni di qualche grado nella zona in cui mi trovavo, ma non ha segnalato nulla di rilevante. Ho penetrato l’entroterra armeno per oltre 40 km visitando due monasteri, ma non ho incontrato nessun blindato. A differenza, per esempio, di quanto avevo scoperto in Egitto il 10 novembre dell’anno passato: 12 posti di blocco con filo spinato, mitragliatrici in postazioni strategiche e blindati per permettere il viaggio verso il monastero di Santa Caterina nel Sinai.
Articolo di Emanuele Franz, filosofo.
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