05
Dec
Una delle sfide più difficili con cui abbiamo il dovere di misurarci riguarda il riconoscimento del merito. Qui scopro di essere pessimista. Da anni si sta tentando di promuovere i talenti proattivi e disponibili ad un percorso di crescita attraverso l’introduzione di feedback continui rispetto all’attività svolta. Col tempo ci siamo accorti che non tutti i collaboratori hanno la volontà di migliorarsi, e alcuni, una volta raggiunto un livello retributivo soddisfacente, preferiscono avere una continuità operativa meno coinvolgente. Il loro operato è utile, ma manca l’attitudine che contraddistingue coloro che intendiamo aiutare e accompagnare verso i ruoli apicali dell’azienda.
Durante la pandemia abbiamo assistito ad un’inversione di tendenza: è cambiata la consapevolezza delle persone rispetto alla necessità di una leadership in grado di fronteggiare e gestire il difficile momento storico. Tutti si sono augurati che fossero nominati nei ruoli direttivi figure eminenti, ma a due anni di distanza le logiche di riconoscimento del merito non sono cambiate affatto. Il clientelismo, ampiamente diffuso in Italia, è stato battuto dallo stato d’emergenza ma al termine della pandemia i criteri in base ai quali avremmo potuto ricreare una classe dirigente competente e con una visione chiara del futuro sono sfumati.
Un cambiamento radicale necessita senza dubbio di un tempo adeguato, ma non può prescindere dal ripensare innanzitutto al sistema educativo. Già Confucio ricordava che l’emancipazione si evince dalla sintassi. Per riportare le persone meritevoli a ricoprire ruoli strategici bisogna partire dall’impoverimento del linguaggio, che ha ridotto la capacità di pensiero delle persone, e dalle distorsioni prodotte da un sistema scolastico che tacita le differenze a favore di un egualitarismo di facciata. Se la formazione culturale degli individui deve necessariamente sottostare alla regola dell’indifferenziazione, visto che una bocciatura è percepita solo come un trauma, e quindi evitabile, e non come lo sprone a dedicarsi e impegnarsi per raggiungere dei risultati, allora questo livellamento ha come effetto diretto anche l’eliminazione della competitività intesa in accezione positiva, ovvero la ricerca del superamento dei propri limiti.
Da un lato, in una società assediata da informazioni continue, viviamo una distorsione cognitiva, conosciuta come effetto Dunning-Kruger, secondo cui spesso sappiamo meno di quanto crediamo di sapere (principio che Umberto Eco ha esteso fino all’estrema “invasione degli imbecilli” che ha presagito nei suoi testi sulla comunicazione contemporanea e sui social media); e dall’altro, come necessario contraltare, viviamo la sindrome dell’impostore, per la quale chi sa, avverte la sensazione di non sapere abbastanza.
Per ovviare a questa tensione e avviare un percorso virtuoso di riconoscimento del merito è essenziale iniziare dal “pattugliare i limiti del proprio sapere. Purtroppo ci siamo convinti che siccome le informazioni, in linea di massima, sono a portata di mano, possiamo sapere tutto. Ma acquisire un’informazione non vuol dire conoscere: non coincide nemmeno con il capirla. […] la conoscenza va perseguita con fatica”, suggerisce la sociolinguista Vera Gheno ne “Le ragioni del dubbio. L’arte di usare le parole”.
L’invito a riconoscere con umiltà i propri talenti e le proprie carenze implica che la conoscenza è frutto di osservazione, dedizione e sacrificio, caratteristiche necessarie al fine di far emergere persone con una visione prospettica del futuro. Il merito di un leader risiede, infatti, nella capacità di pensiero e di linguaggio multidirezionali, ovvero la tendenza a ragionare ramificando le idee, prediligendo un’analisi aperta piuttosto che un percorso sequenziale e lineare. Tali doti agevolano una doppia visione, di breve e lungo periodo; favoriscono l’accettazione di input provenienti da ogni latitudine dell’azienda, la propensione al confronto e la capacità di gestire i conflitti in modo costruttivo. Come per la competitività, vige l’errata tendenza ad evitare lo scontro o a delegare ad altri la soluzione, ma il conflitto può essere accolto anche in un’accezione non distruttiva e vissuto come superamento delle gerarchie a favore di un dialogo più dinamico ed efficace.
Al termine della pandemia abbiamo notato in azienda una forte tendenza al rientro in ufficio e questo ci ha gratificati, perché significa che l’ambiente che abbiamo costruito è percepito dai nostri collaboratori come un luogo di scambio, di confronto e di crescita. Questo risultato è stato raggiunto grazie a una flessibilità di approccio e alla capacità di personalizzare i percorsi di ognuno: è sempre più importante, infatti, accogliere le necessità dei singoli per diversificare le politiche retributive e di compensazione complessiva, in modo da assicurare un nuovo equilibrio tra vita privata e carriera professionale. Inoltre abbiamo predisposto dei percorsi di formazione su misura, perché crediamo che fornire gli strumenti per stimolare ogni aspetto della persona possa portare all’emersione dell’unicità dei nostri collaboratori, oltre che ovviare al problema dell’obsolescenza dei saperi.
Per avere una talent retention adeguata è necessario assicurare un costante aggiornamento (in base ad uno studio effettuato dall’Università di Harvard il valore delle competenze tecniche perderebbe efficacia nell’arco di un anno): le agevolazioni fiscali, come gli sgravi per il rientro dei cervelli in fuga, sono un semplice palliativo, dato che non focalizzano l’attenzione sulla costruzione di skills con un alto valore di mercato; e il disallineamento tra sistema educativo e mondo produttivo non prevede forme di compensazione, allargando sempre più il divario tra competenza e riconoscimento del merito.
Questa scarsa lungimiranza fa emergere la profonda insicurezza delle nostre classi dirigenti, che preferiscono attorniarsi di collaboratori “di fiducia” che non siano in grado di spodestarli. Tale pratica comporta il posizionamento di persone poco meritevoli in ruoli strategici. Ma se le logiche di convenienza personale prendono il sopravvento, allora l’incompetenza rischia di diventare sistemica e il clientelismo di trasformarsi in valore.
“La banalità si manifesta sulla scena del mondo, scena in cui il soggetto è attore e spettatore, osservatore e osservato”, ha scritto il semiologo Stefano Bartezzaghi. Dubbio, fair play e negoziazione! Sono questi gli ingredienti essenziali per neutralizzare le distorsioni generate dall’involuzione del linguaggio.
Pierluigi Sgarabotto, già Managing Director Duravit Italia
(A cura di Andrea Meneghel)
Trackbacks and pingbacks
No trackback or pingback available for this article.
Per qualsiasi domanda, compila il form
[contact_form name="contact-form"]
Leave a reply