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La riflessione di Ivan Rizzi sul ‘merito’ è preceduta dalla citazione dell’art. 34 Cost. Che è una parte del programma statale di educazione/istruzione immaginato in Italia dalle forze politiche che avevano preso il controllo dello Stato nel 1948. Va detto subito che quel programma è un pezzo di storia. Risale a 75 anni fa, e si muove in una prospettiva che, per quanto tradotta in norme costituzionali, oggi è ferocemente inattuale. Nondimeno merita di essere ripreso.
Non è la banale considerazione per cui ‘il mondo oggi è cambiato’ a rendere inattuale quella prescrizione costituzionale. E’ il fatto che, nel mondo del 1948, era semplicemente normale pensare che fosse compito dello Stato guidare politicamente, e amministrare quotidianamente, i processi di riproduzione sociale connessi al succedersi delle generazioni (al trapasso generazionale), dettandone forme e contenuti. I
In questo modo l’interesse statale al monopolio e al controllo dell’istruzione/educazione, che la Costituente ereditava dal passato recente, si incontrava con l’interesse individuale (e delle famiglie) a ricevere un servizio che, sempre in passato, era stato, ed era ancora nel 1948, un privilegio a base economico-censitaria. E in base a questo interesse, avvertito in ogni famiglia e da ciascun individuo, si legittimava.
Se il diritto allo studio dell’art. 33 Cost. era uno dei quattro diritti sociali a prestazione pubblica (sanità, scuola, assistenza, e previdenza) pensati per la ristrutturazione sociale che si aveva in mente dopo lo sfacelo del 1943, l’art. 34 cercava di individuare in ‘capacità’ e ‘merito’ i criteri alla luce dei quali incanalare le risorse a disposizione dello Stato in punto di educazione/istruzione (allora i due termini avevano un altro significato).
E lo faceva nella prospettiva, certo di garantire qualcosa ai meno abbienti (se ‘capaci’ e ‘meritevoli’), ma soprattutto nella prospettiva di selezionare i soggetti destinati ad accedere ai ‘gradi più alti degli studi’ a prescindere dalle condizioni economiche di partenza. Nella prospettiva, cioè, di selezionare, nell’interesse pubblico, quella che, nel 1948, ancora si poteva definire, nel linguaggio dell’epoca, ‘classe dirigente’. E che oggi si definirebbe élite, essendosi nel frattempo mondata delle valenze paretiane che nel 1948 erano ancora troppo vicine.
L’art. 34, in altre parole, mirava senz’altro a garantire le forme di un classico diritto a prestazione universale (e da qui la garanzia dell’obbligo gratuito dell’’istruzione inferiore’ per almeno otto anni). Ma soprattutto mirava alla costruzione nel tempo di una società in cui ‘i gradi più alti degli studi’ fossero raggiunti per ‘capacità’ e ‘merito’ anche da chi non ne avesse avuto i mezzi, costituzionalizzando, così, la logica dell’ascensore sociale che veniva ritenuto interesse pubblico.
Era allora, e resta adesso, la sola prescrizione costituzionale pensata nella prospettiva della riproduzione della società italiana nel tempo, e quindi nella costruzione delle sue élites: una riproduzione che avrebbe dovuto realizzarsi nei processi di trasmissione nel tempo del sapere, gestiti direttamente dallo Stato e, in misura residuale, dai privati, che avrebbero potuto istituire scuole ‘di ogni ordine e grado’.
Ai privati, insomma, veniva riconosciuto un ruolo. Che avrebbe potuto espandersi. Ma non c’è dubbio che il perno di questi processi di replicazione sociale attraverso il sapere- avrebbe dovuto essere lo Stato e la sua amministrazione. Che, del contenuto di quei processi, avrebbe dovuto essere anche il controllore e il garante nei confronti dei terzi (il titolo di studio/pezzo di carta, in realtà ‘certificazione’ cui riconoscere valore legale). Perché si aveva chiarissima la percezione che, al di là del fatto economico, la trasmissione del sapere sarebbe stata la matrice formante della società futura.
Il presupposto di questa visione era da un lato il robusto modello della scuola gentiliana, che sarebbe stato progressivamente demolito dal 1969 in poi, alla luce della lotta di allora alla ‘selezione’. Dall’altro il sistema delle scuole di formazione e propaganda interne ai partiti e ai sindacati che si sarebbe sviluppato ulteriormente dagli anni ‘50 in poi, fino a collassare prima con la riduzione, e poi con l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti (Camilluccia e Frattocchie). A latere stava il sistema educativo interno alla Chiesa cattolica e all’associazionismo ad essa collegato, (il ‘privato’ dell’art. 33, appunto). Embrioni di scuole di formazione avanzata interna si trovavano sporadicamente nei Ministeri e in Banca d’Italia, e andavano sotto il nome di ‘corsi di aggiornamento’.
Ma era la stessa idea, oggi ricorrente, di ‘formazione avanzata’ ed essere, ai tempi, priva di significato. Ed era priva di significato perché la ‘formazione avanzata’ c’era già. Solo che ai tempi si chiamava Università. Ed era saldamente in mano allo Stato, salvo sporadiche eccezioni in parti limitate del territorio nazionale.
Il sistema della formazione interna alle aziende (oggi divenuto un servizio esternalizzato, provvisto a caro prezzo da aziende ad altre aziende e con dubbi risultati) era di là da venire. Ma sarebbe venuto a breve, con caratteristiche peculiari, sul modello della Fondazione Olivetti prima; e poi con la penetrazione dei modelli standardizzati di formazione aziendale di origine anglo-americana.
I quali erano fondati sull’idea per cui la formazione avrebbe dovuto essere affare privato dell’azienda: e cioè a carico dell’azienda e nell’interesse dell’azienda. Con il che si segnava, non solo in Italia, ma prima ancora in Germania, il passaggio tra istruzione (generale, concepita nella prospettiva dell’interesse pubblico) e formazione (di settore, concepita nella prospettiva del particolare interesse aziendale).
Se si riflette velocemente su questo quadro, e lo si compara a quella dell’oggi, non ci vuol molto a capire che, nella situazione del 1948, era ancora presente un’idea di Stato responsabile dei meccanismi di trasmissione del sapere. La vera garanzia contro il monopolio statale di questi meccanismi – che si era sperimentata non solo in età corporativa, ma prima ancora in età liberale – non era affidata tanto ai privati, quanto alla presenza dei partiti come strutture non-statali di elaborazione di pensiero e cultura politica: e cioè strutture finalizzate alla propaganda e al proselitismo su base ideologica, che avrebbero avuto il compito di costruire il ‘formante’’ da applicare alla società per guidarne lo sviluppo futuro. Le vecchie scuole di politica, di partiti e sindacati (non tutti di sinistra), di ciò sono state un esempio formidabile. E testimoniavano, queste scuole, nella loro tensione con l’insegnamento statale, la vitalità di un ambiente sociale in perenne e veloce trasformazione.
Insomma, non solo i partiti avrebbero potuto partecipare alla guida dello Stato – e alla conquista del prezioso Ministero dell’Istruzione attraverso il controllo del Governo – ma avrebbero potuto comunque svolgere una poderosa opera di diffusione dei contenuti del sapere, prima attraverso l’opera degli apparati statali di istruzione, e poi attraverso stampa e teleradiodiffusione: nuovi mezzi che erano in grado di costruire una ‘sistema di discorso’ forse non troppo nuovo in termini di contenuti, ma senz’altro nuovo per ampiezza di diffusione e profondità di penetrazione a livello popolare (da qui l’idea della comunicazione come ‘servizio pubblico’ in mano statale).
Sullo sfondo stava la diffusa percezione dell’intensa valenza politica dei processi di elaborazione e trasmissione del sapere. L’idea gramsciana dell’egemonia politica attraverso la cultura, e cioè attraverso quello che Max Weber chiamava ‘potere ideologico’, era moneta corrente. E non era appannaggio dei soli partiti di sinistra.
Così come era moneta corrente l’idea per cui la selezione del sapere da diffondere, e il potere di diffonderlo, fosse uno strumento essenziale di indottrinamento e lotta politica. Insomma, senza il bisogno di parlare di ‘generazioni future’ si era perfettamente consapevoli che le società si formano e si riproducono attraverso la trasmissione del sapere; che selezionare il sapere da trasmettere significava (e significa ancora oggi) costruire il ‘formante’ della società prossima ventura; e che formare i ‘capaci’ e ‘meritevoli’ dell’art. 34 significava formare l’élite che, nel giro di una generazione, avrebbe dovuto guidare quella stessa società. E lo avrebbe dovuto fare nell’interesse di quella stessa società. Non di altri. Questa era la ragione per cui legittimamente, allora, si poteva parlare a proposito dell’istruzione, di un “interesse pubblico” in senso proprio; che a sua volta giustificava l’imposizione a carico del soggetto privato di quell’obbligo scolastico di cui ci parla ancora oggi l’art. 34 Cost.
Su questo sfondo stava, si diceva, inavvertita, perché possesso comune quotidianamente vissuto, la robusta base dell’istruzione gentiliana. Che era, se si vuole, un’istruzione antica e ottocentesca nei contenuti; che era un’istruzione pensata nel 1923 per precludere alle masse di allora l’accesso alle Università; che era un’istruzione ferocemente selettiva su contenuti che oggi apparirebbero (a torto) inutili; ma che, piaccia o non piaccia, è stata alla base dello sviluppo economico italiano fino agli anni ‘70. E cioè di uno sviluppo di cui semplici (semplici oggi) ragionieri, geometri, diplomati magistrali, e diplomati di scuole tecnico/industriali, sono stati i protagonisti, con competenze così vaste e trasversali, apprese nel periodo dei 13/18 anni, da apparire oggi impensabili.
Era, con tutte le sue caratteristiche negative, un modello di istruzione che era stato in grado di costruire, con i suoi materiali, un capitale umano di altissimo livello, essenziale per lo sviluppo del Paese. Ed era un modello di istruzione incentrato su una cultura trasversale, oggi definita (sbagliando completamente approccio), di stampo ‘umanistico’, che avrebbe dovuto essere la base di ogni successivo apprendimento, tanto per il diplomato, quanto per chi avesse avuto il privilegio, per merito o per censo, di accedere agli studi universitari. I quali presentavano un livello di semplicità nell’organizzazione e profondità di contenuti oggi impensabile.
Se si dovesse provare a sintetizzare il tipo di istruzione allora impartito, da quelle cd. ‘elitarie’ come i Licei Classici (A. Scotto di Luzio, Il Liceo Classico, Bologna, Il Mulino, 2012), a quelle più ‘basse’ perché immediatamente professionalizzanti, potremmo dire che la sua base fosse costruita, riprendendo una frase del filologo Nietzsche dal senso non immediatamente decifrabile, su quell’ ‘arte di saper leggere’, già posseduta dai Greci, che, sempre secondo Nietzsche, avrebbe contenuto in sé ogni possibile metodo scientifico (F. Nietzsche, L’Anticristo, Milano, Adelphi, 1977, § 59). Il che vuol dire, traducendo nel linguaggio dell’oggi, capacità di decodificare un testo scritto, di qualunque natura; di attribuirgli un senso al testo in un quadro di nozioni più ampio, fatto di interrelazioni e ipotesi; di utilizzare il senso di quel testo in un contesto operativo determinato.
E’, se ci si pensa, quello che si cerca di ricreare oggi nell’organizzazione aziendale, prima dando per scontata la distinzione fra hard skills (competenze specifiche) e soft skills (competenze generali), e poi facendo lavorare assieme ingegneri, informatici, e laureati in filosofia, tutti a bassa formazione di base, come se dalla giustapposizione artificiale, a base fordista, di competenze ‘diverse’, potesse scaturire quell’ ‘arte di saper leggere’ di cui ci parlava Nietzsche.
In realtà la distinzione tra hard e soft skills, che oggi ci sembra evidente, e che domina l’organizzazione (inconsapevole) del sapere dell’oggi, era semplicemente priva di senso nel sistema di istruzione/educazione del dopoguerra (i periti chimici che studiavano lo stesso Dante dei Licei classici, nella stessa edizione e con lo stesso commento). Ed è semmai uno dei tanti frutti della penetrazione di modelli di organizzazione del sapere, importati nel dopoguerra in Europa, fondati sui bisogni dell’azienda, e quindi sull’organizzazione del sapere in saperi di settore, che ha impresso una torsione innaturale in Paesi con forti depositi culturali come l’Italia e la Germania, come nella nazionalista Francia. Che è poi una partizione che colloca nella categoria della ‘competenza generale’ ciò che non riesce a classificare immediatamente a fini pratici.
La competenza specifica è la capacità di svolgere un certo tipo di lavoro. Può trattarsi di falegnameria, odontoiatria, chimica, medicina, carpenteria, pilotaggio di un treno, o di un aereo di linea. Non c’è dubbio che alcuni di questi tipi di lavori possono richiedere molta competenza, anni di formazione e intelligenza individuale, ma ciò che li accomuna è che il loro ambito è limitato e chiaramente definito. Esistono, cioè, all’interno di confini chiari, che li separa dalla complessità e dalla vaghezza del mondo in generale. Il che genera nei portatori di queste competenze una impressione di sicurezza e di dominio che risulta loro inspiegabile non sia stata applicata ad altri settori: ad es. la politica o l’economia. Siccome operano in un campo limitato, e la loro esperienza quotidiana è governata dal successo/insuccesso del manuale di istruzioni che hanno appreso, e mettono in pratica quotidianamente, gli risulta incomprensibile che non si dia un Manuale di Istruzioni ad esempio per il governo della società, o per l’elaborazione di una strategia politica, militare, o solo aziendale a medio/lungo termine. E non sono nemmeno consapevoli che in realtà il Manuale di Istruzioni per il governo della società secondo quella logica si è preso a scriverlo ancora nel XVII secolo da parte dei cultori della Cameralistica come primigenia Scienza dello Stato (A. Wakefield, The disordered Police State. German Cameralism as Science and Practice, Chicago, University Press, 2009) e quindi dagli Illuministi scozzesi che ci hanno regalato prima Hume e Smith, e quindi Ricardo, Bentham e Malthus (A. Herman, The Scottish Enlightment. The Scots’ invention of the Modern World, London, Harper Collins, 2001), generando un’economia come scienza naturale del governo delle società. Con i risultati che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi (D. Rodrik, Ragione e torti dell’economia, 2015, Milano, UBE).
La competenza generale o di alto livello è qualcosa di diverso. In una battuta, è la capacità di svolgere un lavoro, di carattere quasi esclusivamente intellettuale, che va al di là di confini chiaramente definiti. E che anzi si caratterizza per il fatto di attraversarli e coordinarli. L’oggetto di questo tipo di lavoro esiste in un universo complesso, costituito da una molteplicità continuamente variabile di fattori e tendenze da indagare e valutare. E per questo può risultare estremamente vago e confuso; perché è impossibile da definire secondo la logica del sapere di settore, essendone la negazione più evidente. Richiede capacità di adattamento e, soprattutto, capacità di trasferire e applicare conoscenze diverse ad ambiti diversi. Ma richiede soprattutto la capacità di costruire le linee di tendenza di una situazione, partendo dall’analisi degli interessi che concorrono a ‘comporre’, di momento in momento, una situazione; la capacità di riunire queste linee di tendenza in un quadro – un ‘campo di forze’ fatto di interessi – destinato a modificarsi nel tempo; la capacità di utilizzare questo ‘campo di forze’ per avanzare ipotesi di sviluppo che possono assumere le vesti della ‘prognosi’, e cioè, letteralmente, della ‘gnosi’ delle cose ‘avanti’.
La Lettera VII di Platone allude, in qualche modo, all’origine di questa forma di conoscenza avvolgente, quando ci ricorda che alla base dei suoi viaggi da Atene alla colonia Siracusana stava la ricerca delle regole che presiedono alla formazione di ‘buone’ leggi e di un ‘buon’ governo. E, per uno strano riemergere delle idee, a questa forma di conoscenza allude, secoli dopo, F. Herbert nel ciclo di Dune, quando costruisce la figura del ‘Mentat’ come la figura del funzionario che si occupa contemporaneamente di sicurezza, amministrazione, diplomazia e, soprattutto, strategia; che è addestrato fin dall’infanzia alla raccolta, elaborazione, ed analisi dei dati attraverso lo sviluppo mirato di memoria, deduzione, e capacità di calcolo rapido; che esiste per produrre previsioni e strategie al limite della preveggenza; che opera al posto dei computer dopo la proibizione della costruzione e dell’impiego di qualunque macchina che cerchi di replicare il funzionamento della mente umana.
Ma solo chi non ha letto e non ha capito Platone, e non ha capito che alla base dei suoi viaggi a Siracusa, e quindi della sua avventura intellettuale, sta il problema della conoscenza per il governo della città, può appassionarsi alla figura del Mentat, e al suo modello di pensiero ‘obiettivo indipendente’ come a qualcosa di nuovo.
In realtà tutta l’Opera Platonica è la cronaca della costruzione di un modello di pensiero ‘obiettivo indipendente’ per la comprensione della realtà in cui collocare il ‘governo’ della ‘città’. Ed esattamente in questa forma di pensiero stava l’arte di ‘saper leggere’ che Nietzsche attribuiva ai Greci, e che riteveva essere la base di ogni possibile metodo realmente scientifico. Perché, come aveva perfettamente capito Nietzsche, il testo da leggere, per i Greci, da Parmenide agli Alessandrini, non era nient’altro che la Realtà. E cioè qualcosa di mille miglia lontano dal Manuale di Istruzioni che ci ha consegnato il pensiero utilitaristico anglosassone dal XVIII secolo in poi. Che, siccome ha sempre e solo pensato la realtà in una prospettiva volta all’accumulazione, ha semplicemente fatto del sapere una tecnica per produrre ‘valore’; ha fatto del ‘mercato’ e del ‘valore’ rispettivamente il luogo e la misura di veridizione di ogni forma di pensiero; come ha fatto della morale un sistema di ‘valori’, ricombinabile, di volta in volta alla luce del valore economico di ciascun ‘valore’ (C. Schmitt, La Tirannia dei valori, Brescia, Morcelliana, 2008).
2. Oggi il mondo del dopoguerra in cui è sorto l’art. 34 Cost. pare lontano, irrimediabilmente consegnato alla storia. E ci pare consegnato alla storia perché le infinite trasformazioni intervenute da allora hanno segnato il passaggio dallo Stato alla società – hegelianamente intesa come ‘sistema degli interessi’ privati – del controllo dei processi di elaborazione, diffusione, e trasmissione del sapere.
Il che ha portato con sé a) il passaggio al sistema degli interessi del potere di controllare e dirigere i fenomeni di replicazione sociale; b) il radicarsi in questo sistema del potere di selezionare e costruire le élites destinate ad operare tanto nel privato, come all’interno dello Stato, determinandone lo svuotamento (la concezione dello Stato come ‘azienda’, servente ai bisogni delle aziende); c) la concentrazione in questo sistema del potere di riconformare (o costruire ex novo) metodi e contenuti del sapere, trasformando il sapere in un insieme di saperi di settore e d) del potere di plasmare il ‘sistema di discorso’ (la koinè) che lega assieme i diversi saperi e li orienta ideologicamente, funzionalizzandoli e trasformandoli in ‘tecniche’ per ogni lavoro, anche intellettuale.
Va da sé che anche in passato sono sempre state le élites a selezionare i saperi dominanti e a presiedere alla propria riproduzione attraverso gli strumenti della cooptazione (K. Loewenstein, Le forme della cooptazione, Milano, Giuffré, 1990). Sono sempre state, cioè, le élites, economiche e intellettuali, a creare un ‘sistema di discorso’ funzionale alla protezione e allo sviluppo dei propri interessi. E in questa circostanza trovava origine l’antica critica marxista al sistema culturale che faceva da sovrastruttura al sistema della produzione, e ne legittimava la conservazione (F. Rossi-Landi, Ideologia. Per l’interpretazione di un operare sociale e la ricostruzione di un concetto, Milano, ISEDI, 1978).
Bisogna però osservare che il temporaneo passaggio di quella cultura ottocentesca ed elitaria alle masse, tipica dello Stato sociale in Europa – e di cui l’art. 34 Cost. è stato un’anticipazione – ha prodotto un curioso -e dobbiamo ammettere temporaneo – fenomeno di propagazione di massa di una cultura originariamente raffinatissima ed elitaria. Un esempio fra tutti di quel processo, è stata la rapida diffusione dei libri-transistor (definizione di Vittorio Sereni) avviatasi nel 1965 con la comparsa in edicola degli Oscar Mondadori, che trasformavano in un prodotto di consumo esteso e capillare Hemingway, Sartre, Balzac, Buzzati, Cassola, ed infiniti altri, di settimana in settimana. Con la replicazione immediata di quell’iniziativa industriale da parte di Garzanti, Mursia, Sansoni, Longanesi, Dall’Oglio. E con il passaggio a breve, nelle stesse forme editoriali, della saggistica alta da parte di Einaudi o Laterza (PBE e UL).
Insomma, il ‘libro da viaggio’ delle élites inglesi che attraversavano l’Impero, o che visitavano la terraferma europea, e che per ciò doveva essere leggero, piccolo, e resistente, era divenuto qualcos’altro. E cioè un prodotto di massa che doveva essere leggero e piccolo, ma a basso prezzo, e non necessariamente resistente, perché replicabile all’infinito. Più o meno come un rotocalco. Se si riflette su questi fenomeni, non ci vuole molto a capire che si è trattato di operazioni editoriali-industriali che non avrebbero avuto fortuna se non avessero trovato un terreno fertile in cui radicarsi e fruttare. E quel terreno era stato preparato tanto dai contenuti, come dai metodi, dell’insegnamento diffuso dallo Stato attraverso la scuola gentiliana, prima e dopo il 1948.
Insomma, d’un tratto, il prodotto riservato ad una élite sociale e culturale gelosa dei propri segni distintivi, come il libro, veniva settimanalmente messo a disposizione di tutti in edicola accanto ai giornali e ai fumetti al prezzo di un pacchetto di sigarette. E ciò perché la scuola gentiliana aveva insegnato a tutti, ovviamente in modi e con intensità diverse, quell’arte di ‘saper leggere’ di cui si diceva prima. E allo stesso modo aveva insegnato a tutti la differenza di registro comunicativo attraverso la distinzione tra maiuscole e minuscole, e attraverso la distinzione tra corsivo e stampato. Che rispondeva a diverse occasioni di contesto e di rapporto sociale.
La riforma gentiliana, insomma, dava i suoi frutti migliori nello stesso momento in cui, collocata nell’ambiente dello Stato sociale, veniva contestata nei suoi presupposti politici (la deflazione dell’accesso all’istruzione superiore) e progressivamente smantellata perché ritenuta ‘elitaria’ e non ‘al passo con i tempi’. Ma, nello stesso momento in cui veniva smantellata, i materiali ed i metodi di cui era composta avevano raggiunto la massima diffusione all’interno della popolazione, provocandone un cambiamento profondo.
Per inciso, è a questo fenomeno nella riproduzione e diffusione del sapere che si deve la contaminazione tra cultura ‘alta’ e cultura ‘bassa’ che ha dato vita al fenomeno, importato dagli USA, della ‘pop art’. Che è stato un prodotto della fusione tra cultura, intrattenimento, e produzione industriale, tale da riconformare l’immaginario sociale ad una velocità mai vista prima (cfr., per tutti, R. Barthes, Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 1974).
3. Rileggere questo fenomeno, tutto italiano – ma non troppo dissimile da ciò che avveniva contemporaneamente nel resto dell’Occidente – alla luce di quel testo essenziale per capire il presente che è The Crisis of Democracy del 1974 aiuta a capire molto di ciò che è avvenuto da allora sul versante dell’istruzione/formazione (M. Crozier, S. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione Trilaterale. Prefazione di Giovanni Agnelli, Milano, Franco Angeli, 1977).
Se il problema principale delle democrazie occidentali (USA, Europa, Giappone) e delle loro élites era da individuarsi in quel ‘sovraccarico democratico’ – e cioè nel moltiplicarsi delle pretese di prestazione da parte statale conseguenti alla diffusione di consumi (un tempo) elitari di massa, e dalla diffusione di una cultura (un tempo) elitaria di massa – che conduceva all’ ‘ingovernabilità’ delle società occidentali costruite su sindacati e partiti di massa ad alto livello di istituzionalizzazione, la ricetta era abbastanza semplice.
Bastava invertire il trend, abbassare i bisogni, semplificare una cultura che sorreggeva la pretesa inarrestabile alla ‘soddisfazione’ dei bisogni, e sarebbe stato possibile riprendere, nel giusto lasso di tempo, il controllo e la guida di una società divenuta, in qualche decennio, incontrollabile. E’ da qui, per inciso, che nasce, in Italia, il dibattito sulla ‘governabilità’. Che, non a caso, è diventata, sempre in Italia, il termine in margine al quale si è sviluppato, a partire da Bologna, il quarantennale dibattito sulla costruzione di governi ‘forti’ e ‘stabili’. Ma che in realtà, in The Crisis of Democracy, era definito come il problema della ricreazione dell’’autorità dello Stato’ di fronte a masse popolari sempre meno docili (e quindi sempre meno governabili) in nome di una nuova ‘moralità’ incentrata sul ‘merito’. Che però, ora, doveva essere inteso in una nuova accezione rispetto al passato.
E’ da qui, per intenderci, che si origina la celebre sentenza di T. Padoa Schioppa relativa alla necessità di ‘attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità’. Spiega Padoa Schioppa: ‘Cento, cinquanta anni fa il lavoro era necessità; la buona salute, dono del Signore; la cura del vecchio, atto di pietà familiare; la promozione in ufficio, riconoscimento di un merito; il titolo di studio o l’apprendistato di mestiere, costoso investimento. Il confronto dell’uomo con le difficoltà della vita era sentito, come da antichissimo tempo, quale prova di abilità e di fortuna.
È sempre più divenuto il campo della solidarietà dei concittadini verso l’individuo bisognoso, e qui sta la grandezza del modello europeo. Ma è anche degenerato a campo dei diritti che un accidioso individuo, senza più meriti né doveri, rivendica dallo Stato’ (T. Padoa Schioppa, Berlino e Parigi. Ritorno alla realtà, in Corriere della Sera, 26 Agosto 2003). Con il che si capisce benissimo che, attraverso l’invocazione al ‘merito’ di Padoa Schioppa, si andava affermando una nuova ‘moralità’ sociale, secondo la quale i ‘diritti’ che fino ad allora erano stati affermati dalla Costituzione del 1948, e realizzati dal legislatore del dopoguerra, non dovevano più essere dati per acquisiti, ma avrebbero dovuto essere riconosciuti di volta in volta in base al ‘merito’.
In altre parole, avrebbero dovuto essere di volta in volta, e di momento in momento, ‘meritati’ da coloro che non si fossero dimostrati ‘accidiosi’ (o ‘choosy’ secondo le formulazioni successive) o che avessero adempiuti ai nuovi ‘doveri’: fermo restando che, nel discorso di Padoa Schioppa, non si capiva chi avrebbe dovuto decidere i parametri del ‘merito’; chi avrebbe dovuto stabilire i nuovi ‘doveri’ sociali; né quale sarebbe stata la sorte di coloro che non si fossero conformati alla nuova ‘moralità’ sociale necessaria alla sopravvivenza dell’individuo alla ‘durezza del vivere’. Né si capisce nel discorso di altri che, in modo ben più articolato, proponevano la stessa logica in tutto l’Occidente.
Sullo sfondo di queste ricette non c’era soltanto un discorso di politica economica modellato sull’improvvisa conversione ideologica di alcune parti della classe dirigente italiana a dottrine del tutto eterogenee rispetto a quelle fino ad allora praticate, e scarsamente compatibili tanto con il disegno costituzionale, quanto con la cultura politica del tempo (chiarissimo al proposito L. Sandonà, Nino Andreatta’s Economic Thought, Bologna, Il Mulino 2017).
C’era anche la necessità di realizzare un mutamento del ‘sistema di discorso’ che aveva pervaso la società italiana del dopoguerra affinché la nuova ‘moralità’ del ‘merito’ potesse essere diffusamente accettata. Gli scritti di E. P. Thompson sull’ ‘Economia Morale’ e sul patto morale tra nobiltà e plebe britannica nel XVII Secolo spiegano bene questo aspetto, così come spiegano la logica interna a questa tecnica di governo affermatasi fin dai tempi dei Tudor (E.P. Thompson, Customs in Common. Studies in Traditional Popular Culture, Penguin Books, New York, 1993). Una tecnica che, in realtà, era già stata messa a fuoco (e decostruita) in Europa al suo apparire da Etienne de la Boétie e dal suo Discorso sulla servitù volontaria del 1576, e poi dal giansenista Pascal che nei suoi dolorosi Pensieri, tra un fluido e una conica, ricordava a tutti che ‘E’ pericoloso dire al popolo che le leggi non sono giuste, perche esso obbedisce loro solo perche le ritiene tali.
Bisogna perciò dirgli in pari tempo che vanno rispettate perche sono leggi, cosi come bisogna obbedire ai Superiori, non perche siano giusti, ma perché sono i Superiori. Se riusciremo a convincerlo di ciò, e cioè che questa è la retta concezione della giustizia, avremo prevenuto ogni rivolta’. Chiave di questo cambiamento era la riflessione sul controllo sociale attraverso la cultura che era iniziata con la ‘Psicologia delle Masse’ di Gustave LeBon (1895) e proseguita su suolo americano (in chiave commerciale) con Edward Bernays e Walter Lippman. Si era capito, insomma, che le tecniche di propaganda sviluppatesi per ragioni militari durante la I Guerra Mondiale, e poi perfezionate in ambito commerciale nel dopoguerra USA per vendere un prodotto, potevano ora essere impiegate sul versante interno per ristrutturare la mentalità e dunque anche i bisogni delle società occidentali (ai tempi già V. Packard, I persuasori occulti, Torino, Einaudi, 1958). E una nozione colpevolizzante di ‘merito’ era la chiave per diffondere una nuova ‘morale’ fondata sul principio del ‘non ci sono pasti gratis’: una formula che, pur essendo in circolazione fin dagli anni ‘30, non a caso nel 1975 è stata rispolverata e trasformata da Milton Friedman in una formula bonne à tout faire, e che è diventata il motto della nuova epoca, buono a chiudere con una battuta ogni discorso divergente (M. Friedman, There’s No Such Thing as a Free Lunch, Open Court Publishing Company, 1975). E che avrebbe funzionato benissimo anche nell’Inghilterra descritta da E. P. Thompson, perché ne era il cuore.
Così come è dalle riflessioni del Club di Roma su ‘The Limits to Growth’ che si è originato l’altro mega-trend sulla ‘sostenibilità’ dello sviluppo, e della ‘decrescita felice’, che caratterizza il discorso presente (AA.VV., I limiti dello sviluppo. Rapporto del System Dynamics Group Massachusetts Institute of Technology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità, Milano, Mondadori, 1972). E che si connette subito al precedente se si riflette sul fatto che consumi elitari di massa e cultura elitaria di massa altro non erano se non conseguenze necessarie dell’impetuoso sviluppo industriale tipico dell’occidente del dopoguerra.
Ed essendo due facce della stessa medaglia, limitazione dello sviluppo e limitazione della circolazione culturale dovevano andare di pari passo per garantire la ‘governabilità’ di società cresciute troppo, e troppo in fretta. E che avevano dato vita ad un inedito ‘ceto medio’ generalizzato con pretese non solo di consumo e benessere crescenti, ma addirittura con pretese di governo politico della società: pretese, a loro volta, legittimate dalla koiné democraticista diffusa dal sistema del discorso pubblico di allora. Per contro, ‘La democrazia – si scriveva in The Crisis – è solo una delle fonti dell’autorità e non è neppure sempre applicabile. In diverse istanze chi è più esperto, o più anziano nella gerarchia, o più bravo può mettere da parte la legittimazione democratica nel reclamare per sé autorità’ (ma cfr., decenni dopo, S. Cassese, La democrazia e i suoi limiti, Milano, Mondadori, 2018)
In questi due testi-manifesto degli anni ‘70 non c’era soltanto un programma sulle prospettive di governo economico (1972) e di governo politico (1974) delle società occidentali che avrebbe dovuto guidare la riscossa delle élites (C. Lasch, La ribellione delle élites, Feltrinelli, Milano 1995) C’era anche, implicitamente, un progetto culturale destinato a realizzarsi attraverso l’occupazione per via egemonica dei processi di elaborazione e diffusione del sapere che presiedono allo sviluppo sociale attraverso l’imposizione di un nuovo ‘sistema di discorso’. E in questo progetto stavano anche i ‘nuovi’ criteri di merito per la selezione/cooptazione delle classi dirigenti di quelle società.
Insomma, quella prospettiva paretiana che era stata cancellata dalle culture del dopoguerra perché incompatibile con la visione di crescita e sviluppo di allora, e che aveva reso improponibile nel 1948 il concetto di élite, iniziava a riemergere. E riemergeva assumendo i caratteri di un elitismo non più costruito sui materiali culturali della vecchia distinzione di G. Mosca tra ‘governanti’ e ‘governati’ (che in realtà erano materiali storici), ma sulla pretesa tutta anglosassone della possibilità di governare la società sulla base di criteri quantitativi di efficienza e di necessità: sul presupposto, cioè, di una tecnica di governo della società (una ‘governamentalità’) fondata su leggi empiriche, desunte dall’osservazione e dalla misurazione dei fenomeni sociali, e finalizzata all’applicazione di quella tecnica misurativa che Bentham definiva ‘aritmetica sociale’, e che era destinata a realizzare la ‘massima felicità possibile’.
Fermo restando che ineluttabilmente, in questa società della ‘massima felicità possibile’, ci sarebbero stati vincitori e vinti (di recente, e da una prospettiva limitata, M. Sandel, La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e vinti, Feltrinelli, Milano 2021). E ci sarebbe stato il bisogno – esplicitamente enunciato dal Club di Roma – di limitare e ridurre – sempre per realizzare la ‘massima felicità possibile’ – le popolazioni mondiali attraverso ricette di stampo malthusiano.
4. Se si fa fatica a cogliere la lucida linearità di questi due manifesti politici, è solo perché Malthus è, in Italia, un autore poco conosciuto, essendo troppo legato all’esperienza storica dell’Impero Britannico e alla necessità di quell’Impero di evitare la proliferazione di Indiani, Cinesi, e Africani nei diversi Dominions e Royal Colonies che lo componevano fin dal XVII Secolo, per garantirne la ‘governabilità’ da parte di qualche migliaia di funzionari appartenenti al H.M. Colonial Service (per la formazione e le tecniche di governo di questa burocrazia cfr. A. Kirk-Greene, On Crown Service. A History of HM Colonial and Overseas Civil Services 1837-1997, I.B. Tauris Publishers, London-New York, 1999).
Del resto, il controllo della popolazione attraverso guerra, povertà, carestia indotta (per i ceti ‘bassi’), e vizio diffuso (per i ceti ‘alti’), era stata una tecnica di governo già applicata e collaudata dalla Corona all’Irlanda fin dal XVI secolo (gli ‘esili’ in Irlanda ai tempi della Regina Elisabetta I. Cfr. A.L. Rowse, The Elizabethian Renaissance: The Life of Society, London, Macmillan 1971). Che non era mai stata abbandonata, ma piuttosto ereditata e trapiantata nel XVII e nel XVIII secolo nel Nuovo e nel Nuovissimo Mondo. Ed era esattamente ciò da cui pretendevano – ingenuamente – di staccarsi le Colonie Americane con le loro pretese di indipendenza.
In realtà, Malthus, nell’elaborare la ricetta eugenetica implicita nella sua ‘legge di popolazione’, non faceva altro che convertire in una teoria a base utilitaristico-economica à la Bentham un’esperienza storica di governo concretamente vissuta e praticata dal British Empire fin dalle origini, tanto in Patria come in giro per il mondo. E lo faceva non a caso, visto che la sua professione era quella di primo cattedratico di Political Economy d’Inghilterra, nominato nel 1805 nel New East India College di Hailey, Hertfordshire, il cui scopo era la formazione dei funzionari della Compagnia delle Indie Orientali prima della loro partenza per l’India. E prima che, nel 1858, la Compagnia delle Indie fosse trasformata nell’Indian Civil Service (K. Tribe, Professors Malthus and Jones: Political economy at the East India College 1806- 1858, in The European Journal of the History of Economic Thought, vol. 2, 1995, 327-354).
Attraverso la riflessione trasfusa in An Essay of the Principle of the Population as it affects the Future Improvement of Society (1798), Malthus riusciva nell’operazione di fornire a questa vecchia tecnica di governo dell’Impero una fondazione teorica supportata dal carattere di ‘verità’ della nascente ‘scienza economica’ a base utilitaristica. E la ‘verità’ incontestabile che, dal suo College di Hailey, Malthus aveva da offrire all’Impero era che l’infinito perfezionamento sociale perseguito dal 1789 in poi, e nei modi che sappiamo, dagli Illuministi francesi, ipnotizzati dalla Dea Ragione, era in realtà limitato. La povertà (non solo indiana) non era un accidente derivante dalla temporanea assenza della Dea, oscurata dalle tenebre della superstiziosa religiosità medievale che aveva confinato l’uomo nello ‘stato di minorità’ denunciato dal prussiano Kant. Era semmai la conseguenza di una legge naturale, quella per cui ‘Il potere di popolazione è infinitamente maggiore del potere che ha la terra di produrre sussistenze per l’uomo. La popolazione, quando non è frenata, aumenta in progressione geometrica. La sussistenza aumenta soltanto in progressione aritmetica’.
Una legge, questa, si badi, accettata in pieno dagli altri economisti classici. Che sta alla base della celebre ‘Teoria della rendita differenziale’ di D. Ricardo. E che sta alla base della altrettanto celebre ‘Teoria del salario’ dello stesso D. Ricardo. E che è, in essenza, una teoria funzionale alla determinazione del ‘giusto’ tasso di natalità e del ‘giusto’ tasso di mortalità. Perché si sa anche che, se si pagano troppo i lavoratori, e ‘troppo’ vuol dire al di là del livello di sussistenza sufficiente a garantirne la sopravvivenza, poi il salario cresce al di là dei suoi confini naturali, i lavoratori si moltiplicano, il sistema dei prezzi funziona male, e la remunerazione del capitale va in crisi.
Per non parlare del fatto che le società in cui quel sistema si radica diventano d’un tratto ‘ingovernabili’, visto che quei lavoratori sviluppano, con il crescere reddito, pretese di consumo crescenti e persino pretese di governo della società. Da qui la ‘Crisi della Democrazia’: che, si badi, per essere inteso, non deve essere inteso come è un discorso sulla crisi delle società democratiche dell’Occidente, ma come un discorso sulla crisi causata dalla democrazia alle società dell’Occidente.
Insomma, attraverso questi due testi – editi negli anni ‘70 da Mondadori e Franco Angeli, e che stranamente oggi, in tempi di ‘decrescita felice’ e ‘postdemocrazia’, sono scomparsi dalla circolazione libraria ufficiale – Bentham e Malthus si sostituivano a Marx e alla ‘Quadragesimo Anno’. E ponevano le premesse per la nascita di quel darwinismo sociale che oggi, a decenni di distanza, è stato il punto d’approdo di questo cambio di visione (E. Pennetta, Inchiesta sul darwinismo. Scienza e potere dall’Imperialismo britannico alla globalizzazione, Siena, Cantagalli, 2020). Una visione che si fonda sulla concezione delle leggi economiche come leggi naturali, al pari delle leggi fisiche; sulla sostituzione dell’economia alla politica (l’opposizione fra taxis e kòsmos di V. Hayek); sul governo dei numeri (comunque e da chiunque prodotti); e sulla asserita ‘scientificità’ delle nuove tecniche di governo delle popolazioni occidentali. Così come ‘scientifiche’ erano le tecniche di governo applicate dal Civil Service in India e nelle altre Colonie della Corona: che dovevano essere intese come ‘scientifiche’ nel senso più profondo del termine, visto che l’esistenza e il fiorire dell’Impero ne era la migliore conferma empirica (il mercato come luogo di veridizione di Foucault).
Allo stesso modo, come l’economista/ideologo Malthus avrebbe trovato, qualche decennio dopo la pubblicazione di An Essay of the Principle of the Population as it affects the Future Improvement of Society (1798) ulteriore legittimazione ‘scientifica’ nei viaggi di Darwin, che aveva ‘empiricamente’ dimostrato la naturalità della ‘selezione’ a livello biologico (C. Darwin, On the Origin of Species by Means of Natural Selection, or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life, 1859), i redattori MIT del Rapporto del Club di Roma trovavano nella nuova scienza statistica basata sulle macchine di calcolo del 1972, e nella biologia a base darwiniana, il fondamento della loro tesi dell’esaurimento inevitabile delle risorse del Pianeta, e quindi della necessità della ‘denatalità’ programmata da diffondere come soluzione alla inevitabile crisi della società industriale del dopoguerra. Del resto, cosa di più ‘scientifico’, tecnologico e avanzato del MIT e dei suoi calcoli?
Sul versante istituzionale, e cioè delle tecniche di governo, l’esito di questo percorso è stato il prodursi non di una nuova ‘tecnocrazia’, come è uso comune dire oggi (sbagliando), ma semplicemente di una nuova Cameralistica, e cioè di una scienza di governo che, rispetto alle originarie versioni europee del XVIII Secolo (M. Foucault, Stato, territorio e popolazione, Feltrinelli, Milano 2017), si differenzia solo per l’ossessione misurativa del digitale e lo strumento dell’Intelligenza Artificiale come sostituto infallibile dell’arte di ‘saper leggere’. Insomma, qualcosa a metà fra l’universo di ‘Davide Copperfield’ e il ‘Ritorno al Mondo Nuovo’ di A. Huxley. Il quale non è un testo che nasce dal nulla, ma è un frutto purissimo della tradizione dei Bentham, dei Malthus, e dei Ricardo, e in cui, già nel 1958, si ritrovavano tutte le premesse e i materiali – nessuno escluso – de ‘La crisi della democrazia’ e dei ‘I limiti dello sviluppo’. Del resto, come aveva capito bene nel 1888, a proposito della questione operaia, il Nietzsche de ‘Il crepuscolo degli idoli’: ‘Se si vogliono schiavi, si è stolti a educarli da padroni’.
5. Per queste vie, insomma, il potere economico si faceva come sempre dominatore del potere ideologico, funzionalizzandolo alle proprie esigenze per farsi, a conclusione del ciclo, potere politico nel senso più elementare del termine (C. Galli, Democrazia senza popolo, Feltrinelli, Milano, 2017, sulla scorta di M. Weber). E lo faceva ridefinendo il concetto di ‘merito’ alla luce di una teoria – il darwinismo sociale – che era del tutto sconosciuto alle culture egemoni in Italia nel 1948, e cioè quella comunista e cattolica che, penetrando nello Stato e nel sistema dell’impresa pubblica statale, avevano permeato di sé e della propria ideologia, rispettivamente ‘comunitaria’ o ‘egalitaria’, le classi dirigenti e il ‘sistema di discorso’ del Paese. Oggi, questo darwinismo, che divide l’umanità in ‘gregge’ e ‘pastori’, secondo schemi antichi della cultura occidentale (il ‘Pastorato’), è evidente, almeno negli USA, nella riflessione di ideologi dell’azione pubblica come C. Sunstein e A. Vermeule, che, in modi diversi, propongono come ‘nuovo’ un totalitarismo liberale che non è nient’altro se non la versione attualizzata della lezione di Bentham (e che può sembrare nuovo solo a chi non ha consapevolezza né dei percorsi storici europei, né dei propri): Sunstein attraverso la teoria della spinta gentile (Nudge) che deve guidare ‘il cambiamento’ della società verso la razionalità finale del ‘meglio’ (R. H. Thaler-C.R. Sunstein, Nudge. La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità, Milano, Feltrinelli 2009; C. R. Sunstein, Come avviene il cambiamento, Torino, Einaudi, 2022); Vermeule attraverso la fantasiosa invenzione di un costituzionalismo del ‘Common Good’, che perverte più o meno consapevolmente le dottrine tomiste del ‘bene comune’, pretendendo di leggere assieme Bentham e S. Tommaso (A. Vermeule, Common Good Constitutionalism. Recovering the Classical Tradition, Cambridge, Massachusetts, 2022).
Il risultato di queste operazioni ideologiche alla fine è stata una spinta verso l’introduzione su suolo americano del vecchio Stato amministrativo da cui sono fuggiti gli europei alla fine del XIX secolo (C. R. Sunstein – A. Vermeule, Law and Leviathan, Redeeming the Administrative State, Cambridge, Massachusetts, 2020): e cioè di un’organizzazione statale parallela al circuito Presidente/Congresso/Senato, fatto di ‘Administrative Agencies’ and ‘Regulatory Bodies’ indipendenti, che dovrebbe mettere assieme il vecchio ‘monopolio della forza legittima’ e il controllo della nuova comunicazione interna su base digitale. E che dovrebbe portare, una volta per tutte, alla realizzazione in Terra del Common Good benthamiano.
Si tratta semplicemente di versioni addolcite, e accademicamente spendibili, della stessa ideologia che si manifesta, in toni più ruvidi, e per un pubblico diverso, negli scritti di Yuval Harari sull’Homo Deus (Y. N. Harari, Homo Deus. Breve Storia del Futuro, Milano, Bompiani, 2018).
In realtà l’obiettivo finale è sempre quello: e cioè la realizzazione in Terra, con strumenti aggiornati ai tempi, del Dio Mortale (il vecchio nome dell’Homo Deus di Harari) che compare sul frontespizio dell’edizione 1651 del Leviatano di Hobbes. E cioè la orrenda caricatura del Cristo Pantocratore che governa il gregge umano, di cui è fatto, e di cui è padrone, con Spada (la Forza) e Pastorale (la Persuasione), però impugnate a mani invertite (a polarità invertite) rispetto all’iconografia tradizionale. Simboli vecchi e potenti, continuamente riciclati e riproposti (sulla tecnicizzazione del mito cfr. F. Jesi, Mito, Milano, ISEDI, 1973) a fini politici, come aveva capito benissimo già nel 1936 Carl Schmitt (C. Schmitt, Scritti su Thomas Hobbes, Milano, Giuffré, 1986). Solo che per farli sembrare nuovi ad un pubblico ricondizionato da certi ‘formanti’ culturali di matrice anglosassone basta chiamarli, rispettivamente, ‘Sting’ materiale, e ‘Nudge’ psicologico. Ed allora sembrano una grande novità.
Alessandro Mangia, Professore ordinario di Diritto costituzionale, Giurisprudenza e Diritto pubblico dell’economia. Relatore IASSP.
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