07
Dec

Definire il merito diventa difficile se non si prende in considerazione il contesto storico effettivo all’interno del quale si sviluppa e viene poi – eventualmente – riconosciuto. Il merito di oggi non è lo stesso di un secolo fa e quello a sua volta non era uguale a come veniva concepito, per esempio, nel Rinascimento. Il merito in un certo senso non è oggettivo, tale per cui rimane identico a sé per tutti in ogni tempo, ma resta sempre sensibile alle variazioni dell’ambiente sociale e culturale. Potremmo dire che è soggettivo ma, come vedremo, c’è un modo che io considero più naturale per esprimerlo e uno che lo è meno.
Guardiamo a come le categorie odierne definiscono il merito: la percezione comune e i messaggi che veicola l’educazione lo fanno coincidere, quasi di fatto, con il successo, che spesso si traduce nel banale possesso del denaro. È un’opzione legittima, sarebbe sbagliato criticarla a priori, ma dobbiamo esserne consapevoli e misurarla secondo i parametri dati. Questa definizione del sistema-merito non coincide necessariamente con le finalità dell’individuo, inteso come membro di una specie naturale. Se per esempio un soggetto ottiene il successo con una impresa, ma in modo così spiccato che crea il deserto intorno a sé, potrà forse aver garantito per la propria bocca un pasto caldo – e forse qualcosa in più – ma non è un individuo naturalmente forte e meritevole, perché la comunità intorno a lui resterà per sempre segnata in negativo dal suo esempio, come da una cicatrice. Immaginiamo un grande magazzino fuori da un centro abitato che porta al fallimento i piccoli negozi locali, le famiglie, la gioventù: è un merito del progresso o un orrore della competizione; procura vita o morte? Potremmo anche andare avanti con le esemplificazioni, ma il concetto che vi sta dietro è semplice: il successo che massimizza il capitale dell’individuo, ma porta alla morte della comunità, non è merito, perché la specie ha bisogno dei gruppi, non dei singoli. Se si pensa l’uomo individualmente, si tradisce la sua natura biologica. La natura biologica è fatta per sopravvivere, insieme e, solo su un piano secondario, individualmente; pertanto saranno le azioni che incentivano la sopravvivenza, la prosperità dei più, a condurre il singolo a una vita felice, in armonia con i principi che lo costituiscono. “Il singolo che pensa di valere più della specie” è la definizione del merito nichilistico a cui stiamo assistendo ai nostri giorni.
È una mentalità pre-filosofica che non si pone il dubbio sull’identità dell’uomo – il conosci te stesso di socratica memoria – e nemmeno sull’utilità, organicamente considerata, rispetto alle finalità del vivente. È una prospettiva secondo la quale l’uomo potrebbe benissimo esser fatto per viver come un bruto, parafrasando Dante. Il percorso degli ultimi due millenni, dalla civiltà greca in poi, contando anche quella egizia e sumerica, ha evoluto il pensiero in una dimensione sociale, per cui la comunità nel suo insieme era sovraordinata al singolo uomo. Se guardiamo alle civiltà orientali, a confronto con quelle occidentali caratterizzate dalle religioni monoteiste, troviamo uno sguardo diverso che non colloca l’uomo al di sopra del sistema vivente, al centro del mondo, ma lo pone in sinergia con l’ambiente e con le altre specie, come un semplice membro che non ha nulla di speciale – talvolta non ci sovviene nemmeno di essere organismi viventi che appartengono al regno animale. Oggi questo equilibrio è stravolto e sembra naturale accettare una società strutturata secondo il modello a piramide. Qual è il problema della piramide? È bello finché ci si trova in cima, ma ci deve essere per forza anche una base di sconfitti. In un complesso di individui dove quelli che stanno più in alto hanno raggiunto il successo passando sopra gli altri, non so se questa scalata si possa definire merito. Se non mettiamo delle regole alla piramide, sono sicuro di voler fuggire da qualsiasi merito risulti da un tale scontro di potere.
Noi proveniamo dalla grande scuola del Rinascimento. Ritengo che Leonardo sia stato il più grande scienziato, poiché vedeva bene la complessità: non è riuscito a fare funzionare molte macchine, ma nella sua mente era presente un disegno d’insieme sul funzionamento del mondo. Dopo circa cinque secoli, siamo approdati a una visione riduzionistica. Abbiamo attraversato l’Illuminismo, che ha portato la fiaccola della ragione un po’ ovunque, ma abbiamo dimenticato come leggere la strada: non sappiamo dove siamo diretti, interpretiamo il merito in modo puntiforme senza considerare il sistema. All’inizio dell’Ottocento si è cominciato a pensare che l’anima non esista, che ci sia solo il corpo, mentre ritengo che l’unione di anima e corpo sia tuttora una soluzione più raffinata. Questa lettura una volta si chiamava Umanesimo, ma il termine ha cominciato a stare stretto. Per offrire un’alternativa fungibile, possiamo parlare di teoria dei sistemi, per la quale noi siamo dei viventi e dobbiamo ricominciare a parlare della vita, organica e inorganica, non più dell’artificialità. Ci troviamo infatti in una bolla di oscurantismo, che interpreto come la mancanza di umiltà nel considerare la nostra condizione. Ignoriamo che cos’è l’uomo e in quali contesti vive bene. L’umanità soffre di una presunzione pazzesca e pensa che una volta che ha soddisfatto il qui e ora, il resto non conti. Ha obliato i valori, la pacatezza riflessiva dell’anziano, lo stesso dovere di procreare e non sa come impiegare la forza. Manca una visione di lungo termine, perché la forza si esplicita nel breve termine, mentre nel lungo termine occorre la forza ma anche sapere dove metterla in opera. Un giovane oggi pensa a lavorare e ottenere le risorse economiche per se stesso, non a costruire una famiglia e un futuro per i figli e per i nipoti.
La mia età mi consente, avendo vissuto l’ultima guerra e il dopoguerra, sentendo alle volte il brivido dei bombardamenti sulla pelle, di confrontare il disastro, quando le persone provenivano dal lutto, dalla fame e dalla devastazione, con la rinascita successiva, che è avvenuta all’insegna dell’etica, anzi del bello etico. Una grande catastrofe ristabilisce un equilibrio, perché si comincia a pensare alla ricostruzione con ottimismo e, soprattutto, con il rispetto per se stessi, che all’epoca significava soprattutto una cosa: mantenere la parola. Chi mancava alla propria parola non era un furbo, ma un individuo che commetteva una violenza contro se stesso, perché non rispettare la parola significa non rispettare nemmeno il sé. Adesso questo bello etico è stato smarrito dietro il cambiamento di valori e le lusinghe dell’artificio. Solo per fare un esempio, dirò che nel dopoguerra gli imprenditori non avevano il desiderio di diventare i più ricchi del mondo, ma la società premiava quei pochi che riuscivano, con il proprio coraggio, ad assumere operai, far crescere la comunità e offrire un servizio. Da ricostruire sembra non ci sia più nulla e la crescita, tecnologica soprattutto, viene fatta assomigliare a una sorta di incubo.
Come ci vogliamo collocare rispetto a questi parametri che ci vengono dati in eredità dalla cultura per stabilire che cosa è merito? Li possiamo accettare? Li dobbiamo contestare? Direi nessuna delle due. Gli interventi di rottura, va detto, di solito non servono a niente, e non servono nemmeno quelli di compiacenza. Entrando nel discorso su cosa sia il merito, cerchiamo di posizionare l’uomo in un modo che possa garantire un futuro. In questo momento, il merito dovrebbe essere riconosciuto a chi legge gli equilibri di convivenza con la vita; a chi riesce a essere pronto per affrontare il futuro facendo una sintesi del passato e conoscendo il presente. Non può essere merito soltanto il conoscere più cose, ma la conoscenza finalizzata a uno scopo. Attenendoci alle scienze della vita, il merito dovrebbe essere ciò che promuove la sopravvivenza. L’individuo meritevole è quello che sa sopravvivere insieme agli altri. È lo stare dentro la vita che dovrebbe essere promosso, il rispettare la natura e il nostro ciclo vitale che in essa si realizza. Quando non rispettiamo la vita, non rispettiamo gli altri esseri viventi. Allargando il concetto di sopravvivenza, possiamo estenderlo non solo a una specie – come quella umana che, se non ci fossero limiti, terrebbe il mondo per sé – ma a tutte le specie, al pianeta, alle forme di vita organica e persino alla materia inorganica. Oggi è previsto un merito per chi salvaguarda il clima, per chi difende il rapporto con l’altro e con i più deboli? No, come si cercava di dire, i giovani sposano, in modo più o meno consapevole, la visione secondo cui chi avanza, a prescindere dal modo e dalle conseguenze, può fare carriera e considerarsi una persona di successo.
Se accettiamo il confronto con la realtà e con la sua quota di determinismo, dobbiamo affrontare un discorso ancora più radicale sull’esistenza del merito. Noi non giochiamo a una partita di cui abbiamo fissato le regole: veniamo al mondo senza poter scegliere chi ci genera e in quale contesto e, a propria volta, i genitori non possono decidere i geni della discendenza. Una sorta di programma pone i confini alla vita di ogni vivente, e ci sono soltanto due fattori che in esso risultano predominanti. Questi sono il sistema genetico e il sistema epigenetico: il primo fa sì che, per esempio, non esista una cellula uguale a un’altra, ma a ogni riproduzione cellulare, per via della mitosi, sorgano delle differenze; il secondo introduce delle piccole variazioni, anche microscopiche, che vengono recepite in modo diverso adattando la struttura della cellula. È impossibile trovare due cellule che siano uguali fra loro, perché ogni cellula viene geneticamente programmata in modo diverso, dopodiché già nel grembo materno, e in ogni periodo di incubazione della vita, si assiste a mutamenti influenzati dalle condizioni epigenetiche. Ci sono, insomma, delle regole prestabilite, degli algoritmi connaturati alla vita – che chiamo algoritmi del vivente – che fanno sì che la vita sia definita in una diversificazione enorme a livello individuale; per cui non esiste un corpo uguale a un altro, nemmeno nella materia inorganica. Nessuno sa chi abbia dato origine a questo programma iniziale e come esso funzioni, però è incredibilmente complesso e meravigliosamente complicato. Tutti siamo diversi con una sola finalità, la sopravvivenza. La vita deve continuare a tutti i costi e per questo prima differenzia l’individuo che è più adatto a sopravvivere in un determinato momento e poi fa perire il meno adatto.
Praticamente, secondo quanto ho detto finora, il libero arbitrio non esiste. Spetta comunque a noi costruire un percorso a partire da ciò che abbiamo: fa parte del mistero della vita e della sua bellezza. È certo che ci sia una indipendenza rispetto al corredo biologico nativo, perché intervengono i fattori epigenetici, ma non esiste un uomo che si costruisce da solo. Quella dell’uomo fabbro di se stesso è una finzione. Il nostro carattere deriva da fattori terrestri e talvolta extraterrestri (pensiamo alle tempeste magnetiche o alla stessa forza di attrazione che cambia le maree e procura qualche scompenso all’uomo), in prevalenza riconducibili alla chimica – sebbene questa materia altro non indichi che fenomeni fisici a cui abbiamo dato un nome particolare. Ciascuno di noi ha una fisionomia individuale, come se fosse una specifica impronta digitale che rimane per tutta la vita, che è nativa e su cui poi si innestano una serie di forze che, pur rimanendo quella ferma, ne comprimono un certo carattere o la potenziano in un’altra direzione. Di fronte a questa logica, che si esprime all’interno di una rete di relazioni su cui possiamo niente, cosa ci induce a ricondurre il merito all’individuo? Dal momento che credo si possa dire che nessuno di noi si costruisce da solo, il merito in cosa consiste?
Finalmente, cercherò di dare una risposta a questa domanda. Io personalmente leggo il merito come la capacità di ottenere un equilibrio nel sistema in cui si vive. Questo lo configura come un insieme di relazioni corrette con la vita: partendo dalla famiglia, arrivando al primo ciclo di conoscenze, al secondo e così via. Il merito dovrebbe appartenere a una persona che non ha una forza dirompente – perché questa porta a far soccombere l’intorno – ma riesce a tenere presenti le forze di bassissima intensità che organizzano la materia organica di cui facciamo parte. Il vivente non lavora di forza, lavora con l’equilibrio, con rapporti a bassissimo impiego di energia come l’entropia, l’osmosi, e via dicendo. Noi come uomini presumiamo tanto, ma abbiamo solo avuto il dono della parola nel crogiolo della vita. Siamo un animale la cui parola ci ha permesso di alzarci in piedi e considerarci chi siamo, dominare il fuoco come nessuna scimmia sapeva fare. Siamo belli come umanità, perché ci accomuna la coscienza, nonostante abbiamo l’inconveniente di voler essere dominanti sugli altri organismi.
Il fatto è che dovremmo vivere avendo riguardo a questa bellezza, perché penso che la bellezza sia funzione. Lo scopo della natura, come si vede in ogni cellula, è sopravvivere e ciò comporta delle funzioni: se queste manifestano il bello, vuol dire che la bellezza è la missione. Elevarci alla coscienza di chi siamo è un modo per essere felici e godere la bellezza della vita, intesa come questo funzionamento, questo algoritmo che ci distingue come un inno continuo alla natura. Il più grosso merito è di chi riesce a sorridere, perché vuol dire che dà qualcosa all’ambiente che lo circonda. Sorridere significa dare disponibilità ed essere pronti alla condivisione, trasmettere a noi e a chi ci sta intorno la felicità dell’essere vivo. Dobbiamo avere la forza interna di crederci costruiti per sorridere, di essere una bella specie, dopotutto. Dare un consiglio ai giovani su cosa fare da grandi è difficile. Non saprei sinceramente cosa rispondere, ma posso dare un messaggio: seguite i valori, perché sulla strada dei valori spesso si incontra l’oro, ma sulla strada dell’oro è difficile trovare i valori.
Viviamo da cinque secoli dentro l’artificialità e ancora parliamo, come se non fossimo sazi, di intelligenza artificiale, come se l’uomo si credesse in competizione con chi lo ha creato. L’intelligenza artificiale è, potremmo dire, una rivolta al nostro stato di essere dati al mondo. Se qualcosa è artificiale, infatti, non può essere naturale e quindi appartenere al medesimo orizzonte. Replicando una cellula o mettendo un’intelligenza su una macchina non replichiamo la vita, ma otteniamo un’altra cosa, un’altra dimensione. Bel progetto quello di andare a vivere su Marte, peccato che l’uomo cresciuto su Marte non sia la stessa cosa di quello che è vissuto sulla Terra. Sembra che il successo maggiore sia quello dell’uomo che riesce a diventare completamente artificiale, a emanciparsi dalla natura, e si lascia alle spalle i tramonti e i confini terrestri. Questo mi sembra un suicidio e il merito dell’auto-estinguersi non può esistere. Uno degli ultimi successi che l’uomo ha avuto nel mondo artificiale è stata la plastica, e da qualche tempo tutti facciamo allarme rosso per le micro-plastiche derivate dalle 400 milioni di tonnellate di questo materiale che si bruciano all’anno e dai 2 miliardi di tonnellate di altre sostanze non biodegradabili, che non sono state costruite con forze naturali. Pensiamo ai solfiti non degradabili nel vino, che infiammano l’intestino e procurano altri malanni. I giovani soprattutto – quelli fino a quindici anni, quando si forma la persona – sono vittime inconsapevoli di questa dinamica dell’oscurantismo e non sembrano in grado di leggere i fattori all’interno del circolo a cui appartengono.
Faccio ancora qualche altro esempio. Non si parla tanto di biodegradabilità quanto di proteggere la biodiversità; ma cosa significa proteggere la biodiversità se non preservare il ciclo della vita da ciò che biodegradabile non è? Il nostro non-rispetto per il vivente passa anche dalla sterilizzazione del mondo, con cui uccidiamo la vita: i batteri e lieviti che abbiamo dentro il nostro corpo e che molto spesso alteriamo. Applaudiamo a tutti i vaccini – ora, ci sono i no-vax che non vogliono vaccinarsi e il mio giudizio sulla loro posizione è quello di un estremismo ridicolo che non permette di osservare razionalmente il problema – ma sussistono delle obiezioni legittime su come sia mutato il concetto di vaccinazione. Dai tempi di Mitridate l’uomo entra in contatto con piccole dosi di una sostanza nociva per immunizzarsi, ma la moderna evoluzione dei vaccini ha introdotto una variabile. Non si lascia che il sistema immunitario agisca secondo il proprio funzionamento, ma lo si inganna allo scopo di riprogrammarne il funzionamento e ottenere un temporaneo vantaggio. Così aggirato, non si ritrova più nei binari fissi delle regole cui è stato creato, non segue il codice genetico. Per una persona che non può più procreare, la pratica è accettabile, al limite, ma un individuo in età fertile con un sistema immunitario modificato in modo artificiale può portare a conseguenze sulla generazione che non conosciamo. Si può dire che questo modo di considerare il nostro rapporto con il vivente e la sua eventuale malattia è contrario alla natura e modifica equilibri in fondo non noti alla scienza? Il fatto che la cultura non riesca a connettere questi elementi fa pensare a un modo molto frammentato e incompleto di pensarci come uomini.
Valentino Mercati, Presidente ABOCA
(A cura di Andrea Meneghel)
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