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Dec

Educare al bello non dona solo un gusto all’altezza della nostra storia artistica, ma offre soprattutto una possibilità di evoluzione delle nostre capacità di giudicare. Il mondo che ci circonda è un mondo estetico, fatto di entità sensibili; quindi non abbiamo giustificazioni per non curare la nostra preparazione al bello. La parola “estetica” rimanda all’etimologia greca “aisthesis” che significa “percepire”. Siamo costantemente avvolti dal mondo fisico delle sensazioni e queste chiedono un giudizio immediato; solitamente lo diamo con noncuranza e disinvoltura, però è sempre presente e ci può arricchire tanto quanto riusciamo a dargli spazio e attenzione nella nostra vita. La bellezza ha quindi un orizzonte di senso esistenziale, aprendosi a ciò che va oltre.
La bellezza si connota in una dimensione trascendentale, per cui risulta molto difficile da definire. Nondimeno, lo sforzo per discriminare il bello dal brutto è parte del discorso filosofico. La quasi impossibilità di isolare criteri di bellezza fissi e oggettivi non giustifica la falsa soluzione di chi risolve tutto nella soggettività del gusto individuale. La trita frase: «non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace», anche se a molti sembra una posizione di buon senso, segna la morte del giudizio secondo la ragione estetica. Pensiamo a quanto suonerebbe arrogante e sofistica una frase come: «non è vero ciò che è vero, ma è vero ciò che dico io» oppure «non è giusto ciò che è giusto, ma è giusto ciò che pare a me». Sono atteggiamenti che disgregano alla radice qualunque tentativo di un’episteme matura e fondata.
Ci sono tre esperienze trascendenti che costituiscono la nostra esistenza: il vero, il bene e il bello. La cosa vera deve smentire il suo opposto, che è la menzogna o l’apparenza, e la filosofia ha sempre seguito questa via. Una conoscenza fondata acquisisce una possibile verità, rintuzzando la nuda soggettività di chi afferma un concetto sulla base di un sentimento o di un’opinione, che è sempre una presunzione rischiosa. Il bene e il giusto sono lo sviluppo della dimensione intersoggettiva, quindi toccano direttamente la politica e i modi che definiscono la nostra vita sociale.
Quanto alla categoria del bello, che usualmente è connotata da una impressione di frivolezza e superficialità, va detto che le cose stanno all’opposto di come le accomoderebbe l’opinione diffusa. Il bello è massimamente utile, perché è il perno della vita politica. In un dialogo di Platone, conosciuto come Ippia Maggiore, Ippia chiede a Socrate quale sia l’attività più importante per l’uomo. Socrate non si limita a rispondere, in sintesi, che la politica è l’attività più importante – come molti ricordano – ma aggiunge che è anche la più bella. Proseguendo, il Filosofo spiega che la politica è l’attività più bella perché dà la possibilità di fare del bene per la comunità in cui si vive.
Naturalmente, se le intenzioni procedono nella direzione dell’utile individualistico, questa attività non deve chiamarsi politica, ma interesse privato. Per quanto anacronistico possa sembrare, il valore della bellezza ci dà un termine per riconoscere quando la politica è vera politica e quando non lo è. Non si può dire che la politica non è bella perché persegue l’interesse personale, ma che l’interesse personale non è politica perché non è bello. La bellezza è una continua valorizzazione della responsabilità.
In un volume del grande teologo tedesco von Balthasar – titolato Gloria, per un’estetica teologica – si sostiene che la crisi dell’apologetica cristiana è dovuta principalmente al fatto che la contemporaneità ha dimenticato la bellezza. Una apologetica senza bellezza non si sarebbe mai potuta sviluppare. Si pensi alla bellezza che tracima dalla comunicazione della Parola di Gesù attraverso la grande arte.
Apprendiamo cosa sia la bellezza principalmente attraverso il mondo delle arti, guardando il gesto di una statua o una figura sulla tela dipinta. L’arte conduce a una sintesi e ci accompagna lungo un cammino reale come un portico lastricato di marmo. Immaginiamo cosa potrebbero essere città come Roma, Venezia, Atene senza la bellezza che le rappresenta: un nulla, un deserto. Nella bellezza c’è sempre una grande proposizione progettuale, mai reattiva, mai nichilistica, ma ispirata all’essere. Il desiderio di voler essere vive di bellezza. Con lei possiamo rappresentare qualche cosa che ci qualifica in modo positivo.
Prof. Stefano Zecchi, filosofo e scrittore, già Assessore alla Cultura del Comune di Milano. Relatore IASSP
(A cura di Andrea Meneghel)
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