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Nov
Il merito rientra nel nutrito novero di quei temi che generano immediato consenso ed esercitano un’irresistibile forza magnetica. Ciò dipende soprattutto dal carattere general-generico che, di per sé, senza ulteriori determinazioni, accompagna il concetto, rendendolo aperto a ogni possibile contenuto: sotto questo profilo, “merito” è una “parola pigliatutto”, a catchall word, come usa dire la lingua inglese; una parola che, come “libertà”, tutti rivendicano e nessuno si sogna di contestare, anche se poi, alla prova dei fatti, finisce per essere riempita dei contenuti più diversi, non solo tra loro contrastanti, ma spesso opposti. Cosicché, a conti fatti e in assenza di un adeguato “pluslavoro ermeneutico”, finisce per dire tutto e il suo contrario.
A tal punto che si dovrebbe, per ragioni anzitutto metodologiche, porre il quesito che Hegel sollevava in relazione appunto al termine “libertà”: bisogna fare attenzione – spiegava Hegel – a non confondere la libertà con gli interessi particolari. Banalmente, anche i proprietari di schiavi, in America, invocavano il concetto di libertà per tutelare il loro interesse particolare. E lo stesso fanno i colossi del Big Tech e i colossi multinazionali, quando rivendicano la loro volontà di sottrarsi a tassazioni e norme legate agli Stati nazionali. Lo stesso, mutatis mutandis, potrebbe dirsi ragionevolmente intorno al concetto di merito.
La tesi che intendo succintamente sostenere è che l’odierna società competitiva – il regno della tecnica e della deregolamentazione del reale e del simbolico – quanto più celebra e glorifica la nozione di merito, tanto più la mortifica e la disattende. A tal punto che, senza esitazioni, mi avventurerei ad asserire che quella che stiamo vivendo, con euforia o depressione a seconda delle sensibilità, è tra le società meno meritocratiche dell’intera storia umana. E lo stesso potrebbe, in fondo, dirsi in relazione al tema della libertà.
Non è un mistero: il nuovo ordine del mondo, dopo la fine del Weltdualismus (Berlino, 1989), seguita senza posa a celebrarsi come il regno della libertà e del merito, quando – a un più sobriamente realistico esame delle cose – appare come sideralmente distante e dalla libertà, e dal merito.
Per quel che concerne la libertà, la fine dei totalitarismi non ha dischiuso la scena immaginata dai cantori zarathustriani dell’eterno ritorno del mercato: au contraire, ha conosciuto – e continua a conoscere – il più mortificante trionfo dell’omologazione e della fuga verso il conformismo, quale si esprime nella “tirannia della moda” (Simmel) e nell’apoteosi della “cappa” (Veneziani) di quel pensiero unico come unico pensiero consentito che, a rigore, segna la morte stessa dell’attività del pensare. Per non parlare, poi, delle sempre più lampante disuguaglianza che regna sotto il cielo e che rende impossibile l’uguale libertà degli abitatori della cosmopoli, sempre più condannati a una condizione in cui miseria e disuguaglianza si capovolgono senza soluzione di continuità nel più deplorevole stato di levigata e apparentemente democratica illibertà.
Per quel che concerne il merito, poi, non v’è dubbio: è anch’esso, retoricamente, il point d’honneur della globocrazia neoliberale, la sola società – ci assicurano i suoi instancabili aedi – in cui ciascuno valga come individuo in base alle sue capacità e, appunto, ai suoi meriti. Anche in ciò sarebbe da ravvisarsi la distinzione fondamentale – o almeno una delle distinzioni fondamentali – rispetto ai totalitarismi passati, poco cambia se in tinta nera o rossa, egualmente incapaci di valorizzare il nesso di libertà e di merito che solo sotto il cielo neoliberale riuscirebbe a splendere e a prosperare.
Eppure, anche in questo caso, a uno sguardo il più possibile affrancato dal vitreo teatro delle ideologie o, rectius, dell’unica ideologia superstite, le cose appaiono decisamente diverse dal loro racconto cantato dai troppi strateghi del consenso.
Non occorre necessariamente essere dotati del talento critico di Marx o di Adorno per averne contezza: non viviamo forse nella società in cui l’ultimo influencer si afferma più dello studioso, l’ultimo calciatore ottiene maggiore successo rispetto all’ingegnere aerospaziale e – si potrebbe continuare per molto ancora – l’ultima velina gode di maggiore riconoscimento del migliore direttore d’orchestra? Dove sarebbe, dunque, il merito?
Per non tacere, poi, della contraddizione fondamentale della società tecnomorfa: quella che, idealmente, canta le lodi del merito e, realmente, lo nega, costringendo gli individui a competere da punti di partenza differenti. Chi si sognerebbe mai di dire che vengono valorizzati i meriti in quella gara di corsa in cui i partecipanti fossero posti nelle condizioni di gareggiare avviandosi da punti di partenza diversi, alcuni – supponiamo – con chilometri di vantaggio sugli altri? Eppure, è scena di ordinaria alienazione nei confini blindati del sistema del fanatismo del libero mercato. La società reificata – non ce ne stupiamo – si regge su un concetto reificato di merito: quello che lo declassa a “libertà” del soggetto-atomo di autoaffermarsi in forma deregolamentata, calpestando tutto e tutti, secondo il modello offerto ad esempio dai pirati della finanza borderless.
Quanto fin qui sostenuto mi permette di trarre una conclusione provvisoria, che forse potrebbe valere come ipotesi di lavoro sia teorico, sia – soprattutto – pratico: il merito – non meno della libertà – resta un nobile ideale da attuare, non certo un valore già incarnato in un ordine delle cose esistente e, come tale, da difendersi ut sic.
Diego Fusaro, Direttore Dipartimento di Filosofia morale IASSP. Estratto dal saggio “Per merito”. Editore Rubbettino
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03Oct
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