30
Nov
«L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» questa sola frase nella preparazione costituzionale ha richiesto giorni di combattuto e profondo dibattito: Palmiro Togliatti, uno dei grandi protagonisti della Guerra di liberazione e all’epoca segretario del Partito Comunista, riteneva che la parola corretta da usare fosse “lavoratori”, per ovvie ragioni di centralità di questo termine; Fanfani insistette molto sul sostantivo “lavoro”, che non equivale al senso che diamo oggi di “fatica”. Il lavoro sono le imprese. Dire che l’Italia è fondata sul lavoro significa affermare che a fondamento della nostra Democrazia c’è un substrato aziendale che permette ai lavoratori, quindi quasi tutti noi, di sopravvivere in un mondo liberale.
Difendendo le aziende si difendono i lavoratori. L’intelligence economica dovrebbe porsi primariamente questo obiettivo costituzionalmente apicale: sostenere l’interesse nazionale espresso dal lavoro delle imprese. Si tratta di un dovere collettivo, di cui dovrebbero occuparsi in egual mondo lo Stato e i soggetti privati.
Tutto ciò vale in misura maggiore se riferito all’industria della difesa: in primo luogo perché la protezione, anche armata, della democrazia è un elemento costituente per le società democratiche; in secondo luogo perché le crisi a cui assistiamo oggi richiedono purtroppo un dispiegamento di tali mezzi. Si tratta di un settore necessario allo Stato per garantire gli strumenti atti a difendere la libertà dei cittadini. Da qui il rapporto estremamente particolare che intercorre tra lo Stato e la propria industria della difesa.
Far parte di un’alleanza, la NATO, e avere un Grande Fratello oltreoceano, ha permesso all’Italia di restringere le spese militari, cedendo un po’ della propria sovranità in questo settore per investire in altri campi. Per ogni emergenza si sarebbero potute – credevamo – acquistare armi dai Paesi alleati. Questa strada si è rivelata non essere del tutto percorribile. Un esempio recente riguarda il caso dei carri armati Gepard che il governo tedesco aveva deciso di inviare in Ucraina: il cannone che montavano era prodotto in Svizzera, la quale si oppose all’invio di queste armi senza una previa autorizzazione, legittimamente ricorrendo a una clausola sul singolo pezzo. Un atto che il governo tedesco percepiva come cruciale per la libertà della Nazione rimase vincolato alla decisione di un altro Paese. L’esempio spiega perché esiste un livello minimo di sovranità nel campo della difesa necessario alla sicurezza.
In una ipotetica graduatoria, la palma per la sovranità militare andrebbe alla Francia, che spendendo circa il triplo della nostra quota riesce a produrre sul proprio territorio tutto ciò che compone l’arsenale. Persino gli inglesi, che sono una potenza nucleare, comprano i missili intercontinentali dagli americani; i francesi utilizzano missili francesi su sommergibili francesi, spendendo otto volte quello che pagano gli inglesi.
L’Italia presenta un quadro meno incoraggiante sotto questo punto di vista, ma l’attenzione volta a migliorarlo è in crescita. Un grosso ostacolo è rappresentato dall’opinione pubblica, alla quale la politica non è riuscita a presentare una giustificazione persuasiva dietro a questi processi. La sensibilità sociale sul tema è alta e personalmente ritengo che occorrerà discuterne a lungo prima di trovare le parole giuste su un terreno comune.
Quanto all’interazione fra intelligence e industria della difesa, è comprensibile che quest’ultima deve mantenere una certa segretezza. L’intelligence deve prevenire agli attori ostili il furto di informazioni sensibili che potrebbero comprometterne l’efficacia. Se, per esempio, conoscessi esattamente il funzionamento di un particolare radar, sarei agevolato nella ricerca di un modo per eluderlo. Con informazioni sufficienti sul funzionamento di un missile, si possono progettare strumenti per disinnescarlo o addirittura deviarlo.
Le autorità nazionali preposte si assicurano che ciascuna industria che opera in questo settore protegga sufficientemente bene i propri segreti industriali. Vengono inoltre imposti dei requisiti di sicurezza del sistema informatico e particolari procedure di autorizzazione a svolgere determinati compiti per il personale. Esistono progetti dove è persino proibito far lavorare cittadini italiani che abbiano un’altra cittadinanza. Per quanto possa apparire escludente, i servizi di sicurezza hanno il diritto di imporre scelte per preservare segreti sviluppati a tutela della democrazia e della libertà con i soldi dei contribuenti italiani, affinché non finiscano in mani terze.
Con “mani terze” non significo solo i nemici del momento, ma anche gli alleati, che rimangono rivali sul piano economico. Se ci sono dei segreti che vengono protetti, c’è anche una intelligence ostile che cerca di appropriarsene. Non solo per ragioni di legittima difesa – sabotare l’armamento in caso di guerra – ma, in tempi di pace, si usa vendere l’informazione come merce di scambio. Un altro effetto che si può ottenere al momento della vendita è la svalutazione del prodotto di un competitor conoscendone i difetti. È una parte di quella complessa attività di difesa strategica del proprio interesse che passa attraverso le alleanze, le clientele, l’influenza geopolitica e lo schieramento di determinati Paesi nel proprio entourage. Inutile ricordare che, anche in questo caso, assistiamo a una intensa competizione geostrategica anche con i nostri alleati.
Gli statunitensi sono particolarmente attenti al segreto militare. Quando la Russia tentò di vendere un sistema antimissile alla Turchia, gli Stati Uniti si opposero minacciando un embargo sugli F-35. Attraverso i radar, i russi avrebbero potuto capire il funzionamento dell’avanzatissimo caccia americano. L’embargo alla statunitense è molto severo: non interrompe solo lo scambio fra il Paese che pone l’embargo e quello che lo subisce, ma anche fra quello che lo subisce e tutti gli altri Paesi che intrattengono rapporti commerciali con gli statunitensi. Evidentemente non si tratta di un sistema molto liberista, perché equivale a dettare legge su quello che può essere venduto e quello che non può essere venduto, con dovute eccezioni. L’India, per esempio, provò ad acquistare il sistema di difesa antimissile russo e, in quel caso, gli Stati Uniti non opposero l’embargo. Perché? Perché c’era un interesse nel far rientrare l’India entro un’area di alleanze e l’embargo avrebbe posto ulteriori difficoltà.
Come ho cercato di far emergere, l’interazione tra aziende della difesa, Stato e intelligence è segnata dalla particolarità. L’Italia da questo punto di vista deve ancora crescere: c’è una buona relazione tra le aziende dal punto di vista della protezione del segreto industriale, ma l’interazione con le agenzie preposte non è fra le migliori e ciò comporta un serio svantaggio competitivo. Manca la buona prassi di comunicare con precisione e per tempo alle imprese gli aggiornamenti sul contesto politico e commerciale; il flusso informativo fatica a instaurarsi, penalizzando la disseminazione della conoscenza. Le aziende potrebbero dare al Ministero della Difesa un contributo più strutturato se fosse loro fornito un migliore canale di contatto. Questo sarà un punto su cui lavorare concretamente per equipararsi almeno agli attuali livelli degli altri Paesi.
Giuseppe Cossiga, Presidente AIAD. Estratto della lectio del Master In Intelligence economica. IASSP 2023.
(A cura di Andrea Meneghel)
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