21
Nov

Sì, la lotta per il merito, giusta non meno di quella per la libertà, deve per definizione essere aperta al futuro e non certo alla conservazione delle cose come sono: perché, come ricordato, le cose come sono appaiono sideralmente distanti dall’attuazione del binomio di merito e libertà.
A tal punto che, in relazione al merito, dobbiamo di necessità porre la domanda che Hegel sollevava intorno al tema della libertà: siamo davvero certi che oggi, quando si dice “merito”, non si stiano difendendo interessi particolari e situazioni che del merito sono, a rigore, l’antitesi? Non è certo un mistero come, ad esempio, nell’ambito dei concorsi – pubblici e privati – il merito svolga assai frequentemente la parte di vernice ideologica impiegata ad arte per giustificare la discrezione e l’arbitrio nelle loro forme più assolute e più assolutamente ripugnanti. Rispetto alle quali, per inciso, perfino il sistema dell’aperta cooptazione apparirebbe preferibile e, soprattutto, meno disonesto. Analogamente, se inteso e praticato come alibi per la sopraffazione e per il neoliberale bellum omnium contra omnes il “merito” non diventa, forse, solo la vernice ideologica di giustificazione di un modo di agire e di pensare che del merito propriamente inteso è compiuta negazione?
Per questo, la giusta lotta per il merito non può coincidere con quella in auge presso il côté neoliberale, che di fatto intende tale lotta come semplice celebrazione dell’esistente e delle sue dinamiche di riproduzione e di potenziale allargamento planetario. Deve, invece, saldarsi con la ricerca operativa di un diverso modello di vita, di pensiero e di coesistenza, in cui l’eguale libertà di tutti e di ciascuno sia precondizione per il riconoscimento dei meriti e dei talenti individuali: detto altrimenti, i meriti potranno manifestarsi e realizzarsi solo ove saranno riconosciute condizioni di partenza eguali per tutti, id est pari opportunità, come almeno in parte era al tempo del compromesso tra Stato e mercato, prima cioè che la “seconda Restaurazione” del 1989 – come l’ha definita Badiou – travolgesse tutto e tutti. Solo allora il merito dell’individuo potrà essere riconosciuto e valorizzato non in antitesi con la comunità, ma come più alta e più perfetta realizzazione dei suoi princìpi e dei suoi valori.
Questa considerazione sottolinea l’esigenza, una volta di più, di non accontentarsi di ciò che c’è e “di non trasformare l’esistente nel proprio ideale”, secondo l’immagine di Dostoevskij, senza limitarsi a rimpiangere ciò che c’era, con vacui esercizi di nostalgia. Se inaccettabile è l’ordine delle cose che nega i meriti imponendo coattivamente un’uguaglianza pervertita in omologazione e in livellamento, non più desiderabile appare lo status quo della civiltà della Tecnica, che celebra libertà e merito nell’atto stesso in cui li perverte in una nuova e forse anche più subdola forma di omologazione, peraltro perfettamente coesistente con la più perversa riduzione della coesistanza sociale a lotta perenne per la sopravvivenza mediante la sopraffazione (mors tua, vita mea).
Il vero merito, che solo l’ideologia oggi imperante può far coincide con la semplice concorrenza e dunque con la sopraffazione potenzialmente di tutti contra omnes, non è quello che intende robinsonianamente l’individuo come un titano in lotta contro tutti: è, invece, quello in grazia del quale, con il suo talento, posto socialmente nelle migliori condizioni di espressione, permette al soggetto di distinguersi e di affermarsi come membro perfetto della comunità, come incarnazione compiuta dei suoi valori, unendo magnificamente libertà individuale ed etica della comunità.
In ciò, il vero merito sembra decisamente più simile a quello teorizzato dall’etica classica: nel campo di battaglia, sotto le mura di Troia, il merito dell’eroe individuale si realizzava appieno incarnando al grado massimo i valori della comunità e favorendo lo sviluppo della comunità stessa. Libertà individuale ed etica comunitaria trovavano, così, nel merito dell’eroe la propria più gloriosa incarnazione.
È quanto ci insegna anche l’etica di Aristotele, che, certo distante dai cruenti campi di battaglia omerici, concepisce in modo più “urbano” l’etica e il merito come valori che riguardano, sì, l’individuo e il suo habitus personale, ma che incarnano pur sempre, ineludibilmente, l’etica comunitaria della πόλις. Per Aristotele, che mirabilmente compendia il senso dell’intera avventura spirituale ellenica, il vero merito è quello in grazia del quale i valori sommi della comunità si incarnano in forma esemplarmente perfetta nell’agire dell’individuo: egli è il migliore, dacché esprime nella forma migliore lo spirito della sua πόλις. Insomma, le avventure del merito, come quelle della dialettica, hanno dinanzi a sé ancora un lungo cammino, aperto al futuro e, insieme, radicato nella storia migliore della nostra civiltà.
Diego Fusaro, Direttore Dipartimento di Filosofia morale IASSP. Estratto dal saggio “Per merito”. Editore Rubbettino
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