03
Oct
Nell’interdisciplinarietà sta la sottile differenza tra comprensione e conoscenza. Il grado ancora minore, ovviamente, è la mera informazione, alla base di molti discorsi senza coerenza che si ascoltano oggi. Per avere informazione basta comprare l’Enciclopedia Britannica, o meglio la Garzanti, dove c’è tutto; per la conoscenza occorre capire quello che si legge; la comprensione, infine, si distingue dalle precedenti per la capacità di individuare tendenze e ragionarci sopra.
Io credo, modestamente ma con solida convinzione, che per capire l’economia serva un pensiero veramente interdisciplinare. Non una multidisciplinarietà dal punto di vista accademico – che pure sarebbe un passo avanti, rispetto ai silos di conoscenza verticalizzata, non comunicanti, che sono le discipline d’oggigiorno – ma un paradigma nuovo, attivo sul campo. Quello a cui comunemente ci riferiamo con il termine “economia” è un intreccio di politica, sociologia (cioè “scienza della società”) e finanza. Per comprendere l’economia mondiale è utile rivolgersi a tutte e tre: alcune osservazioni, che sarebbero impossibili guardando i singoli ambiti isolatamente, diventano evidenti quando ci si avvicina al fenomeno sotto la prospettiva interdisciplinare.
Pensiamo al concetto di Stato di eccezione: quello che mediaticamente viene proposto come un evento sconvolgente e inatteso, è in realtà la norma di un sistema più ampio che vive perennemente nella crisi, tranne rari anni. Questo avviene specialmente, a memoria d’uomo, dal 2001, quando iniziarono le ondate di cambiamento legate al terrorismo, che diedero forma al mondo in cui viviamo. L’esito che abbiamo sotto gli occhi è una profonda regolamentazione del mondo, che continua tutt’ora nonostante l’attenuarsi della fase “calda” dell’emergenza. Stupisco che un’alterazione così radicale dell’ordine sociale non derivi da un’opera di genio, ma da un atto di follia.
La stessa Unione europea cresce per crisi. Nel 2004, anno in cui Romano Prodi era presidente della Commissione europea, avvenne l’allargamento dell’eurozona da 16 Paesi membri a 24. Ventiquattro Paesi che dicono “buongiorno” in modo diverso. È stato chiaramente un grande lavoro per i falegnami, in maggioranza italiani, che hanno allargato i tavoli, rifatto le cabine e via dicendo, ma dal punto di vista della coesione si trattava di un cambio di passo difficile da conciliare. Si sapeva che le economie non convergevano, ma l’allargamento è stato deciso in conseguenza di una domanda politica che arrivava dall’est-Europa. Oggi i Paesi sono ancora più diversi di allora e faticano a comprendersi, soprattutto nelle relative esigenze e strategie. Per formare un’area monetaria ottimale, i Paesi che la compongono dovrebbero essere almeno simili sotto un profilo industriale, economico, finanziario e sociale, ma nulla di tutto ciò.
Arriviamo alla grande crisi finanziaria del 2007-2008. Un evento rocambolesco, sembrava la fine di tutto. Le banche hanno iniziato a fallire, le carte di credito versavano in uno stato drammatico. È iniziata la prima stretta monetaria. La BCE, invece di fare l’accomodamento, lanciò quattro aumenti dei tassi di interesse. Furono in errore, a mio giudizio. Dopodiché iniziò il quantitative easing (QE) e attualmente siamo entrati nella fase del quantitative tightening o serraggio quantitativo (QT). Con il QE il mondo è stato inondato di liquidità senza pudore, come se non si fosse saputo che questa quantità di moneta avrebbe generato inflazione; ora con il QT si cerca di asciugare la moneta circolante, ma probabilmente ne stiamo sottraendo troppa all’economia. Il mondo, come dice Hirschman, è un pendolo: va avanti e indietro.
Queste variabili non sono economiche in astratto, ma hanno notevoli ricadute in politica e nella società. Quando si verifica, un default deve di necessità ricadere o sul sistema sociale o sul sistema bancario, non c’è alternativa. Se non ci fosse stato l’accomodamento, oggi avremmo forse lavoratori più soddisfatti e tre o quattro banchieri scontenti.
Un decennio dopo questi avvenimenti, l’imprenditore americano Donald Trump vinse le elezioni intercettando la classe media americana falciata dalla globalizzazione. Non si poteva anticipare questo risultato senza una analisi attenta del fenomeno della globalizzazione: una economia senza tempo e senza spazio, iniziata nel 2000 con l’ingresso della Cina e della Russia nel WTO, che aveva emarginato intere porzioni della società, dalla borghesia fino al proletariato. Da queste si sollevò una forte richiesta di rappresentanza politica per la legittimazione delle proprie istanze, che fu intercettata da Trump. Curiosamente, l’apertura dei mercati, compendiata nella pratica della delocalizzazione, detta off-shoring, si è rovesciata anni dopo nel suo opposto, che è il re-shoring, il “far tornare a casa le aziende dopo la vacanza”. Si è assistito parallelamente anche al friend-shoring, una delocalizzazione selettiva che privilegia i Paesi considerati amici, in risposta all’instabilità e alle minacce globali cui è sottoposta la catena dei rifornimenti.
La pandemia, in ultimo, è stata l’occasione attesa da molti per sospendere tutte le regole. Ora grazie a questo – direi eufemisticamente – si è scoperto che tali regole erano nella sostanza tanto giaculatorie quanto inutili; il mondo può marciare lo stesso. Senza il patto di stabilità il debito italiano è arrivato al 150% del PIL, ma non è successo niente. Il caso giapponese, il cui debito è arrivato al 240%, è ancora più evidente. L’economia, astrattamente intesa senza un contatto diretto con le altre scienze sociali, di cui fa parte, con assoluta evidenza non avrebbe mai potuto predire un esito simile.
Torniamo al punto di partenza: non si comprendono i fenomeni senza un pensiero che guarda le discipline con senso di unità. Possiamo decidere di far partire la nostra visione del mondo dall’economia e sostenere che un certo provvedimento comporta delle ricadute sociali; oppure possiamo ritenere che la società, organizzandosi in un certo modo, adatti a sé il sistema economico. Comunque si affronti il dilemma, citiamo in campo sia la sociologia, sia l’economia, sia la politica.
On. Domenico Siniscalco, Economista, già Ministro dell’Economia e delle Finanze
Estratto della lectio del Master In Intelligence economica. IASSP 2023 (A cura di Andrea Meneghel).
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