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Oct
Sul tavolo ci sono opzioni tecnicamente plausibili e persino apprezzate da una comunità internazionale che altre volte in passato si è presentata con volto avaro. Un rapporto che il saggio di Carmine Manna -studi in intelligence economica allo IASSP di Milano- cerca di approfondire per decifrare significato e potenzialità del progetto sui porti franchi nel Meridione.
L’Unione Europea ha proposto alle aree meno produttive del continente una soluzione – che risale ormai a 20 anni fa – concedendo uno tra i più efficaci strumenti per accelerarne lo sviluppo. Si tratta di 18 porti franchi, la maggior parte dei quali si sarebbe dovuta creare appunto nel Mezzogiorno secondo la logica del puntinismo: vale a dire concentrare la crescita in determinate aree da cui poi attendersi una graduale diffusione del benessere. Una risposta potenzialmente di grande impatto generativo, che oggi più che mai potrebbe assicurare il dispiegamento di capacità progettuali e produttive a catena. È notorio che anche menti eccellenti sono costrette a emigrare loro malgrado in luoghi molto più attrattivi. Ricordiamo che negli ultimi 25 anni il Sud ha perso due milioni di abitanti: un dato che trova riscontro con l’inizio del Novecento, quando i grandi piroscafi partivano alla volta delle Americhe. In nessuna parte d’Europa si ripete una simile contingenza.
Il porto franco è un progetto, di autonomia sul piano gestionale e finanziario, concepito in termini di duttilità. Perché proprio il porto franco? Perché tutti i grandi paesi hanno bisogno di zone neutre, di passaggio, concorrono al mosaico della complessità dell’economia di un Paese. Sono enormi opportunità dalle quali può affermarsi ciò che non sa ancora fare il nostro Paese: attrarre. Cosa? Imprese, forme inedite di turismo, sistemi di interscambio e soprattutto finanziamenti e capitali, fondi di investimento, private equity.
Immaginare un Sud attrattivo è possibile, viste le immense qualità che offre, rispetto all’habitat spesso saturo e “noiosissimo” di una pianura sarmatica.
Esiste ed esisterà sempre una “minoranza creativa” che può progettare il futuro e condurre i territori fuori dalle acque morte.
Un porto franco può assumere una direzione più tradizionale come bacino di libero scambio, parzialmente autonomo rispetto alle leggi del paese ospitante, in particolare per quanto riguarda la finanza, l’investimento, l’interscambio delle merci e l’agilità dei controlli e della burocrazia. O predisporsi a funzionalità più avanzate e anticipatrici di futuro. Pensiamo al porto franco che si sta costruendo in Marocco, a Tangeri, in una posizione geograficamente e geo-politicamente strategica. Uno scenario che non teme le oscillazioni del mercato, posta a cavallo delle maggiori rotte commerciali che collegano il Mediterraneo all’Atlantico.
Cosa possiamo dire dell’Italia? È un’autostrada dell’Europa proiettata sul Mediterraneo, al centro di uno scenario di primario interesse strategico. Consideriamo, fra le molte chances, quelle energetiche, l’Italia rappresenterebbe un intermediario logistico privilegiato.
Il maggior timore è il rischio di perdere il controllo su queste opzioni promettenti, attaccabili dalla criminalità organizzata, ma la strada maestra rimane quella di offrire sane alternative per lo sviluppo e la strategia dei porti franchi si inserisce proprio in questa prospettiva di risanamento, anche sul piano della legalità.
Pensiamo ai porti franchi costruiti sul Tamigi (in qualche caso centri di ricerca e sperimentazione avanzata), piccoli punti di autonomia, o quelli in Montenegro. Si sa che i porti franchi dell’Est hanno i vizi di Las Vegas ma, compatibilmente con quello che è lecito, perché qualcosa di simile non potrebbe trovarsi anche nel Mezzogiorno? A corredo non ci sarebbe il deserto del Mojave in Nevada, ma un lascito storico senza pari, grandi riserve naturali e una prodigiosa stratificazione di memorie.
La storia del Mezzogiorno, le indagini sociologiche e politiche che si sono susseguite ci suggeriscono due possibili matrici con cui si è perlomeno tentato di aprire una dialettica del concreto. La prima è il familismo amorale, concetto introdotto dal sociologo statunitense Edward C. Banfield nel suo The Moral Basis of a Backward Society nel lontano 1958.
L’altra matrice è la condizione di solitudine e isolamento culturale dell’imprenditoria meridionale. Da qui l’impresa vede mortificate le stesse basi strutturali dello sviluppo. Sul piano sociale, la manifestazione più evidente di questa contingenza è il voto di scambio. La merce di scambio, molte volte, è anche il diritto di trovare un lavoro al di là della redditività. Ma nel momento in cui il mondo si apre alla concorrenza, il lavoro sociale è destinato a sparire trascinando dietro l’intero sistema.
L’economia è sempre più proiettata verso una dimensione sovranazionale e accesamente concorrenziale; in certi casi sceglie il protezionismo, affermato esplicitamente persino da tutti i paesi europei nonostante il nome e il fine dell’Unione: patriottismo economico. La geopolitica e l’intelligence economica parlano di soft power e in generale di post-globalizzazione. I testi e gli elaborati open source di teoria e di strategia sembrano simulazioni e proiezioni di una inevitabile escalation del conflitto economico e di un ritorno ai blocchi autarchici con catene del valore chiuse.
Il porto franco si inserisce in questo paesaggio inquieto come possibilità fattiva di autonomia, creatività e persino di dignità.
Fattori imprescindibili per la tenuta economico civile di una società, che per il singolo individuo equivalgono al rispetto di sé e all’autostima. È questo il segreto del vincolo tra l’individuo e la collettività: non c’è rispetto di se stessi senza rispetto di appartenenza.
Non ci può essere uno senza l’altro. Si viene rispettati nella misura in cui il proprio lavoro si accorda con la volontà collettiva e strategica di una comunità.
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