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Oct
“La civiltà è una gara tra l’educazione e la catastrofe”.[1]
L’intera collettività ha bisogno di una educazione eminente per poter credere che la civiltà abbia un futuro.
Con la consueta lucidità e la tensione veritativa il sociologo Luca Ricolfi nel suo “La rivoluzione del merito”, risponde a tono a pregiudizi e faziosità che assediano il merito, trovandosi in accordo con il comune sentire. “Con la guerra contro il merito noi stiamo alimentando l’invidia sociale, il risentimento, la frustazione, il vittimismo […]. Una civiltà è tale proprio in quanto riesce a contenere i sentimenti negativi, così come a frenare gli istinti più bassi e indegni […]. La civiltà, in fondo, è proprio questo: una macchina che trasforma la competizione in cooperazione, l’invidia di ammirazione”.[2]
Dietro il credo progressista c’è l’errore di supporre che la buona società dipenda esclusivamente dal modello educativo senza tenere conto dei risultati effettivi. Una logica zoppa che pensa solo agli input -che nella scuola hanno imposto l’abbassamento degli standard educativi- ed elude gli output – che oggi sono l’evidenza del danno scolastico-, ha inflitto alla collettività un vulnus devastante. Da un lato per i meritevoli, si badi, appartenenti sia ai ceti abbienti sia a quelli medio-bassi, entrambi bloccati in attesa dei meno meritevoli e dei disimpegnati; dall’altro proprio per gli ultimi, dove il deficit formativo finisce per eternizzare le condizioni di svantaggio di partenenza. I ceti privilegiati sono in grado di pareggiare quel deficit con le risorse familiari, mentre agli altri viene sottratta l’unica opzione emancipativa offerta dalla scuola. Non sostenere economicamente i più bravi e non elevare culturalmente i meno bravi è il perfetto strumento della diseguaglianza.[3]
Ma non c’è solo un inciampo logico a confondere il dibattito sul merito, c’è anche la storica ossessione del progressismo per il controllo sociale, insieme alla supponenza evangelizzatrice, e soprattutto il non-detto di una decadenza assunta come destinale,[4] che non permetterà a tutti di salvarsi.
La decadenza è una categoria dell’arroganza. Si pensa di aver già vissuto tutto, compiuto tutto e proprio per questo non si crede più a nulla, non si accetta che la possibilità ecceda la realtà. L’aspetto più eloquente è la caduta della natalità nei paesi occidentali. La possibilità di trovare una via è affidata solo alla tecnica, al suo immane sapere che non sa, come a una nuova superstizione.
La cultura della decadenza è naturalmente opera delle élite. Insiste su tutto ma penalizza soprattutto i più, la maggioranza della popolazione.
Essa è veramente il nichilismo realizzato, liberato dai vecchi fondamentali, dove l’io è un punto stocastico dell’indifferenziato, un individuo-massa che tuttavia si crede unico ed essenziale. Il soggettivismo assoluto si è fatto mondo e lusinga solo i desideri individuali.
Nessuna gioventù crede nel cambiamento – che un tempo si chiamava con enfasi rivoluzione. Nessuno vuole veramente un nuovo inizio, il futuro non è più una promessa nell’era della democrazia delle promesse.
Tutti chiedono la durata. Vivere o sopravvivere, cosa cambia?
La cognizione della decadenza si è insediata a poco a poco nelle menti, il processo è stato una conquista, non ha avuto grandi resistenze né vere alternative fino alla sua condivisione anche da parte della base delle popolazioni.[5] È avvenuta attraverso quel punto di usura della democrazia che è la promozione del consenso.
La modalità, divenuta decisiva nella competizione degli interessi, non poteva che affidarsi alle tecniche mature del marketing finendo per trasformare l’elettore in consumatore. Assecondare e compiacere tutte le sue aspettative, dalle basiche a quelle del profondo.
Alla fine, dobbiamo ammettere che il populismo non è più la voce del popolo, “la voce autentica della democrazia”, come pensava Christopher Lasch, è l’opera perfetta del plagio esperita dai global leaders. L’aveva già detto il più sfacciato oracolo degli investitori finanziari: “La guerra di classe è finita e noi l’abbiamo vinta”.
Intanto, millenni di consolazione escatologica e duecento passa anni di materialismo dialettico verranno dimenticati, sopraffatti da seduttivi metaversi e ibridazioni allettanti, dove si dispiegherà e rivelerà il desiderio invincibile di non essere uguale a nessuno[6], e di essere riconosciuti in cima a ogni gerarchia.
L’incontentabilità umana è il Primo motore, il vitello d’oro del marketing. Nell’equilibrio inquieto tra legge e desiderio hanno la meglio i diritti del desiderio.
Ma se nella realtà non esistono pasti gratis, né si possono accontentare le voglie di tutti, è più opportuno offrire agli scontenti e agli ignari nuove terre dell’Eden in cui trovare appagamento. Come fecero i primi politici americani regalando agli insoddisfatti le terre del West, anche se non erano loro. Oggi il West sono letteralmente i nuovi mondi, nuovo spazio-tempo metareale, sempre più immersivo per confondersi coi sogni e coi giochi o per riaccendere ricordi perduti.
Abbiamo sempre cercato alternative più appaganti della realtà, spesso percepita come subìta, poco importa se anche con esse si consumava l’esistenza. Sapevamo da sempre che la vita stessa è priva di senso ossia inintelligibile e che, poeticamente, siamo fatti della stessa sostanza dei sogni. L’alcol e le droghe valevano quanto le fedi e le ideologie per consolarci.
“Chi più assiste, meno vive”, è un monito inattuale, poiché vivere è per lo più sopravvivere all’esistenza, soprattutto se non la affidiamo a qualche ipotetico compito o fine, cioè a uno stratagemma umanistico. Forse sono solo entertainment anche le predizioni più verosimili, la strada aperta dal videogame è quella imboccata da tutta la produzione digitale: tutto dev’essere più facile, più semplice, più accessibile, più attrattivo e veloce, dall’apprendimento al lavoro.
“Questo Snow crash è un virus, una droga o una religione? […] ma che differenza c’è?”
“Snow crash” è il titolo di un romanzo di Neal Stephenson che nel ‘92 precorre il metaverso, le modalità immersive in un mondo parallelo dove viene doppiata la vita reale attraverso Avatar che consentono di dispiegare in potenza gli atti, le sensazioni, le percezioni senza le derive limitanti o avverse del mondo reale. Si può volare come Superman, sapere senza imparare come in una Rivelazione, vivere d’estasi e senza terrori. Anche nel celebre Matrix, sequel dal 1999 delle sorelle Wachowski si replica in chiave cyberpunk il mito delle ombre della caverna di Platone dove la realtà è nascosta da una illusione, ma al di là dell’inganno ordito ai danni di ignare vittime si evince l’impossibilità di una scelta tra convenienze. È più dolce il sogno indotto o il mistero che avvolge la stessa vita reale?
I protagonisti potrebbero sapere di essere in un altro mondo, dentro un sogno e potenziare ogni loro atto, accelerare o abbreviare il tempo come appunto nei sogni, se però sapessero di stare sognando. Senonchè nessuno sa di sognare mentre sogna. Il lungometraggio Inception di Christopher Nolan insiste su queste differenze tra chi sogna sapendo di sognare e chi ne resta ignaro, quindi chiuso nell’onirico.
L’obbiettivo sarà quello di offrire attraverso il sogno l’immersione assoluta nei desideri, finalmente esaudibili. Un vero Eden, più reale del reale?
Ivan Rizzi. Presidente IASSP
[1] H.G. Wells
[2] L. Ricolfi. La rivoluzione del merito. Pag. 152. Milano. Rizzoli. 2023
et Fondazione Hume, P. Mastrocola e L. Ricolfi. Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza. Milano. La nave di Teseo 2021.
[3] Ibid. L. Ricolfi. Pag. 157
[4] Per il sociologo Ulrich Beck l’Occidente è divenuto un sistema suicidario.
[5] “Da un secolo […], altri uomini erano apparsi, in numero crescente […]; erano guidati dalla missione infernale di rosicchiare e corrodere ogni legame, di annientare ogni cosa necessaria e umana. Sfortunatamente avevano finito per raggiungere il grande pubblico, il pubblico popolare. Il pubblico colto, influenzato da una serie di pensatori che sarebbe noioso enumerare, aveva da tempo aderito al principio della decadenza, ma questo non aveva molta importanza, quello che contava davvero ormai era il grande pubblico, che a partire dai Beatles e forse da Elvis Presley era diventato il criterio di ogni convalida, un ruolo che la classe colta, avendo fallito sul piano etico come su quello estetico, ed essendosi per di più gravemente compromessa sul piano intellettuale, non era più in grado di conservare”.
- Houellebecq. Annientare. Pag. 696-697. Milano. La nave di Teseo. 2022
[6] Come l’Unico di Max Stirner
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