05
Oct
I racconti epici dei nativi americani spaziano dalle vicende di guerre tribali alle cacce, in estasi e terrori, ma quando i coloni europei li annientarono anche i racconti finirono. Alla domanda sul seguito della loro storia i sopravvissuti rispondono che da allora non successe più niente. L’epos si fermò di fronte al niente dell’insignificanza.
Lo scrittore Peter Handke esprime viceversa il senso di orgoglio di essere sulla vetta del mondo che animava il popolo tedesco, al di là di ogni riscontro storico.
“Eravamo molto eccitati,” raccontava la mamma […] Finalmente tutto ciò che era sempre stato incomprensibile ed estraneo si inserì in un grande contesto, i fatti si ordinarono in relazioni reciproche, e il lavoro stesso, da automatico e alienante che era, acquistò un significato, come una festa. I movimenti che la propria coscienza vedeva eseguire contemporaneamente da tante altre persone si componevano in un ritmo sportivo, e la vita riceveva una forma in cui ci si sentiva protetti e liberi insieme.
Il ritmo diventò esistenziale: come un rituale. “Il bene comune viene prima del bene individuale, il senso della comunità viene prima dell’egoismo”. Così, era come se uno fosse dappertutto a casa sua, la nostalgia non esisteva più.[1]
Il discorso sul merito genera disagio tra le luminose convinzioni dell’inclusivismo soprattutto quando, paradossalmente, è legittimato dal criterio delle pari opportunità. Eppure sono queste che possono garantire una tenuta sociale dove appunto la regola del merito definisce una scala di valore condivisa, quella regola tensiva che a volte ha costituito la forma morale della democrazia liberale. Ma è proprio questa forma che oggi sotto scacco, ritenuta inadeguata.
Allora il merito sembrava regolare il sistema valoriale di ogni comportamento e di ogni attività, l’orgoglio di meritare rispetto era la contropartita simbolica leale di tutti all’uno. Di fatto poneva limiti all’eccesso all’interno di una soglia minima di omogeneità sociale. Senza il merito resta, ripeto, solo il ceto e il censo, il portato intollerabile del privilegio, al pari dell’ordine illiberale dinastico.
Tutti siamo testimoni di una metamorfosi, irreversibile e imprevedibile, fatta di una miriade di passi inarrestabili come in un immenso algoritmo. Qualcosa di ignoto sta davanti a noi, non come ogni aspettativa di futuro, questa volta siamo privi di stelle polari, di teleologie, privi di idealità e ideologie che fino a ieri disegnavano la via del divenire, e come sempre agli estremi troviamo gli allarmati e i credenti, detto alla Eco, gli apocalittici e gli integrati.
La metamorfosi non è né casuale né fatale anche se resta indecifrabile, le minoranze creative e, come sempre, quelle ispirate dal realismo economico ossia dall’opportunismo rassicurano che il reale è razionale e che lo sarà anche in futuro. Come dire, senza scomodare Hegel, che non c’è di meglio di ciò che c’è e che sarà.
È certo che senza i nuovi saperi non sapremmo più come vivere, la tecnica, la sia funzionalità onnipresente, la learning machine, il concetto di altre forme di intelligenza, sono già effettuali, ciò che creano sono beni intrinseci. Forse il più sorprendente e inquietante è la scoperta che l’intelligenza umana non è affatto la sola possibile -l’interpretazione dei dati, delle informazioni e la profilazione dei comportamenti stanno creandone una del tutto inedita. Ne consegue che la cognizione ontologica, persino lo spirituale, il religioso, i paradigmi morali vanno riscritti su altri fondamentali. Il nostro presidio dubitativo teme più per la nostra capacità di tenuta razionale che per il resto, avanzando obiezioni di ordine etico, così come aveva tentato rispetto all’assoluto economico, alla riduzione del tutto alla ragione contabile. Vale per tutte questa stupenda obiezione di Charles Pègny: il denaro, “lo strumento di misura, di scambio, di valutazione ha invaso tutto il valore che doveva servire a misurare. È come se l’orologio si mettesse a essere tempo”.[2]
Ma molto prima della metamorfosi si depotenzia la possibilità di idealità tensive che ha da sempre animato le giovani generazioni. La pratica corrente è mettere moralmente al bando il passato, a cominciare dagli inemendabili peccati della storia dell’Occidente.[3]
Il tema interminabile della politica è la convivenza umana, la vicenda della storia della specie alla quale non basta mai lo stato di fatto. La storia come è noto non insegna mai niente, come la tela di Penelope sempre fatta e rifatta. A volte, nel realismo politico, confida sugli equilibri di potere tra élite, ma soprattutto sulla priorità del controllo dei bisogni, aspettative e pulsioni dei più. Per questo esistono le compensazioni e i risarcimenti più o meno provvidenziali, dal panem et circenses, alla manna del Dio di Abramo, al soma, la droga di stato de “IL mondo nuovo”, il romanzo distopico di Aldous Huxley. Il Novecento ha polarizzato due opzioni fatali e per nulla superate dai tempi, una sunteggiata perfettamente da Von Bismark alla fine del secolo precedente: “Non esiste politica interna, esiste solo politica estera” – e l’altra nella terribile intimidazione di Stalin – “Nessuno si deve sentire al sicuro”.
Il primo pretende di assicurare la stabilità interna spostando l’aggressività al di fuori dei confini nazionali (espansionismi, egemonie, colonialismi e oggi neo-colonialismi e peacekeeping inclusi); il secondo volge al proprio interno l’aggressività di un controllo illiberale stabilizzando il potere delle proprie élite.[4]
Il non detto della parte egemone è quello esplicito di una apprensione: come difendersi dai poveri, come disattivare la critica e le reattività degli insoddisfatti, oggi in particolare del ceto medio, sciogliere l’aggregarsi del risentimento collettivo in soluzioni personali sempre più individuali.[5]
In fondo la fenomenologia esistenziale non è mai veramente sociale. “Il personale è sociale” era solo uno slogan già attempato negli anni ’70, mentre le droghe mietevano le prime vittime tra i giovani, offrendo nell’età della loro massima potenza energetica e tensiva l’alternativa immersiva senza ritorno.
Ivan Rizzi. Presidente Istituto IASSP.
Estratto dal prossimo saggio IASSP “Per merito”. Editore Rubbettino.
[1] P. Handke. Infelicità senza desideri. Milano. Garzanti. 1992
[2] “C. Pèguy profetizzò che “la rivoluzione sociale sarà morale o non sarà”. Qualcosa di molto simile ripeterà Malraux: “Il XXI secolo sarà spirituale o non sarà”… Confidiamo.
[3] Bisogna fare tabula rasa di passato? La traiettoria è già stata indicata da tempo nelle destrutturazioni concettuali, da un lato nelle ipotesi teoriche di metamorfosi attraverso allettanti potenziamenti e perfezionamenti dell’umano, transumanesimi e ibridazioni. Dall’altro nelle seduzioni immersione delle bio tecnologie. Mentre il background ideologico è promosso dalla Woke religion, politically correct, cancel culture, ecc, allevati nelle università statunitensi.
In Europa le ritroviamo in forma più conviviale nel WEF, epigone dell’antica Royal Society e della più recente Fabian Society. Basta leggere le plausibili argomentazioni di Klaus Swab e degli influenti ospiti di Davos.
[4] Il realismo ci dice che ogni conflitto è governance delle élite, anche nel caso delle rivoluzioni, al pari della pratica del consenso liberale, voce residuale della democrazia.
[5] Ad esempio identificando nel profondo della psiche l’origine della propria inadeguatezza. Gli Stati Uniti in particolare seppero utilizzare la psicanalisi per il controllo della stabilità interna molto meglio dei paesi europei dove è nata.
Trackbacks and pingbacks
No trackback or pingback available for this article.
Per qualsiasi domanda, compila il form
[contact_form name="contact-form"]Ultime notizie
03Oct
Leave a reply