14
Sep
L’asprezza e la complessità dei problemi contemporanei imporrebbe l’affermarsi di leaders notevoli; al contrario, notiamo che è in corso una involuzione dell’autorevolezza nella leadership. Sostengo che l’unica strada percorribile sia cercare di ricostruire le condizioni di una vita politica efficace, a cominciare dai partiti. So bene che a questi ultimi si guarda oggi con glaciale diffidenza. Restano tuttavia gli strumenti cruciali per lo svolgimento della dialettica politica.
Il riconoscimento dell’uguaglianza è un tratto ineludibile delle moderne società democratiche, ma anche le élites giocano un ruolo imprescindibile. Affermare principi e criteri di merito non è in contraddizione con l’uguaglianza. Tutte le grandi democrazie del passato hanno valorizzato la conoscenza, la competenza e l’esperienza assumendoli come base delle decisioni comuni. Dovremmo energicamente liberare la vita politica italiana dagli ostacoli all’affermazione del principio di competenza e qualità che, al momento, si scontrano con il calcolo ristretto di pochi gruppi.
L’esperienza politica vissuta fino in fondo compiutamente, a cui affidare la responsabilità della guida di società complesse, deve partire dalla formazione di classi dirigenti radicate nella realtà e culturalmente molto più ricche. La competenza tecnica è importante, ma abbiamo verificato che da sola non può reggere le sorti di un Paese o una Comunità grande come quella Europea. Sono convinto che anche le realtà private possano dare un contributo significativo a questo processo. La prova della fattibilità di quanto sostengo è la Francia, che sulla base della collaborazione fra pubblico e privato ancora oggi valorizza la propria classe dirigente.
In Italia la questione è stata ampiamente delegata al settore pubblico, che non ha colto la centralità della formazione classica nell’esperienza politica. Porre rimedio allo squilibrio esistente dovrebbe essere fra i punti fondanti dell’attuale governo, considerato anche quanto agevolmente certi accorgimenti immediatamente funzionali si potrebbero intraprendere. Altri, invece, comportando un impegno di medio e lungo periodo, dovrebbero essere coltivati con la consapevolezza che a coglierne i frutti saranno i governi successivi. Non so dire quanto interesse ci sia per un piano così lungimirante.
L’Unione Europea si regge internamente, nonostante i suoi molti problemi, ma fatica a assumere un ruolo da protagonista sulla scena globale. Il rapporto periclitante fra i Paesi fondatori dell’Unione e quelli entrati a partire dal 2004 è uno dei vulnera più evidenti. Già prima dell’ingresso di questi ultimi era chiaro che l’Europa avrebbe dovuto dotarsi di strumenti istituzionali per governare i nuovi squilibri, ma così non è stato. Si poteva con ogni auspicio lavorare a una comune Costituzione Europea, che avrebbe sanato molte lacune, ma il progetto naufragò con il referendum in Francia e in Olanda nel 2005 e non furono avviati altri tentativi in quella direzione. Una modifica del meccanismo di votazione nell’Unione è in pianificazione, ma ad ora non si intravedono indicatori del possibile esito. Nel complesso, si devono evidenziare anche le buone notizie: l’Europa sostiene coraggiosamente l’Ucraina aggredita e sta compiendo passi importanti sulla via di un ripristino della normalità pre-pandemia, benché continuino a emergere all’orizzonte altre crisi.
Esempi di provvedimenti urgenti da affrontare vertono sui temi della difesa comune, dello sviluppo e dell’informazione, con particolare cura per il regolamento che interessa i new media. C’è infatti l’esigenza di impegnarsi convintamente in una riflessione su uno dei temi più discussi al mondo, quello dei social. L’informazione sta raggiungendo livelli capillari e sempre più pervasivi, manifestando anche fenomeni di falsificazione ed eterodirezione. È evidente che l’ingegneria sociale che si vale di questi mezzi rientra nelle pratiche di guerra dell’informazione a basso costo più efficaci.
Le tensioni intervenute tra i grandi protagonisti del mondo contemporaneo rendono difficile il funzionamento delle organizzazioni internazionali e delle stesse Nazioni Unite. Per quanto la proposta di un partito globale sia altamente improbabile – non riuscendo a realizzarlo neanche su scala locale – tuttavia la politica dovrebbe essere ispirata a una concezione mondiale della strategia. Non uno solo dei problemi sopra citati può essere risolto entro confini nazionali, forse nemmeno continentali.
La struttura burocratica dell’Unione, ormai appesantita dal tempo, dovrebbe essere rinnovata, per esempio affiancando al Comitato politico e di sicurezza (CPS) – un organo che si occupa del monitoraggio della situazione internazionale e contribuisce all’orientamento politico-militare per la prevenzione e la gestione delle crisi – altrettanti tavoli particolari per discutere i problemi economici, ambientali e via discorrendo. Rivitalizzare, in sintesi, uno strumento principalmente militare per contribuire alla soluzione dei problemi sociali.
Quale Paese può proporre una leadership all’altezza di tutto questo? Per quanto impopolare come opinione, è più probabile che sia un grande Paese della UE a esprimere queste qualità, poiché se lo facesse uno Stato meno solido dal punto di vista finanziario potrebbe trovarsi senza il sostegno degli altri, a causa del fattore trainante legato all’economia. Potenzialmente tutti i Paesi possono produrre leader autorevoli, ma la differenza in termini di attenzione si fa purtroppo sentire quando sussiste una sproporzione nelle rispettive disponibilità finanziarie.
On. Umberto Ranieri, Senatore, già Sottosegretario di Stato al Ministero degli Affari Esteri. Estratto della lectio del Master In Intelligence economica. IASSP 2023.
(A cura di Andrea Meneghel)
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