28
Sep
Assistiamo a un entusiastico processo di deresponsabilizzazione generalizzata a cominciare dalla formazione, luogo della condiscendenza infelice, come se tutti i giovani vivessero in condizioni di fragilità endemica e di svantaggio, e dovessero essere protetti e risarciti destinando la scuola, cioè il nostro futuro, a spazio della desistenza per umiliati e offesi.[1]
La scuola è il luogo di sperimentazione e ri-orientamento, la desistenza serve a sgombrare lo spazio esistenziale e cognitivo per il nuovo orizzonte, e il gioco, la sua modalità basic di appagamento coinvolgente e immersivo rappresenta la forma della transizione…
Un nuovo Prometeo senza il tragico ci dona la condizione postumana e the game è la congiuntura.
Lo scrittore Alessandro Baricco nel suo “The Game” riprende le parole di Stewart Brand per ribadire che la rivoluzione digitale non aveva un assunto ideologico esplicito, eppure:
“Puoi provare a cambiare la testa della gente, ma stai solo perdendo tempo. Cambia gli strumenti che hanno in mano, e cambierai il mondo”. Applicato con ferreo rigore e formidabile successo, questo metodo è diventato, in una cinquantina d’anni, l’unico vero principio ideologico del Game. L’unica sua credenza quasi religiosa.[2]
Tuttavia nello spazio-tempo del gioco non veniamo esentati solo dalle intransigenze avverse del reale, da inquietudini, paure, sofferenze, ma anche dalla rivelazione offerta dalla gioia e dall’estasi.
“C’è un’estasi che segna il culmine della vita, oltre il quale la vita non può andare. E il paradosso dell’esistenza è che tale estasi giunge quando si è più vivi e consiste nella più completa dimenticanza dell’essere vivi”.
Jack London ci dice che quel punto esiste proprio in quanto increato, al di fuori della nostra volontà.
Nel gioco tutto è ri-creato, tutto è surrogato del vero eccetto il tragico, la sconfitta non è mai definitiva, in ogni momento si può sempre ricominciare un’altra partita. Interi insiemi disciplinari -biotech, psicologia, chimica, apprendimento automatico… – elaborano sintesi sempre più potenti per farci provare il brivido della paura e altre per dominarla e così via. Tutto è sulla via del perfezionamento perpetuo e tutto viene rivolto alla singolarità dell’individuo, o meglio dell’individuo massa.
“Ma negli ultimi trent’anni qualcosa e cambiato [riconosce Baricco], qualcosa di davvero immenso. Il Game ammette quasi esclusivamente giocatori singoli, è pensato per giocatori singoli, sviluppa le capacità del giocatore singolo, dà punteggi ai giocatori singoli. Perfino Trump e il Papa mandano tweet, intuendo che gli abitanti del Game sono abituati ormai a profilarsi individualmente, a giocare uno contro uno, così, il Game è diventato il grandioso incubatore di un individualismo di massa che non abbiamo mai conosciuto. […][3]
L’uomo ha già in sé molto di impersonale, per questo può creare quelle forze impersonali poste sulle tracce dell’immortale e del perfetto, cioè della durata e dell’efficienza.
Ne invidiamo l’antifragilità, la potenza incrementale, mentre ci dà qualche apprensione la loro autonomia paraintellettiva. Strutture sociali, apparati, automatismi, sistemi di conoscenza e di autoapprendimento sono metafore meta umane a cui affidiamo il contingente. Sono molto di più di beni in sé o mezzi. Cosicchè pare un ossimoro il fatto che più dubitiamo di noi più confidiamo nelle nostre creazioni impersonali.
È vero che crediamo ancora in quella liminale e innata cognizione di essere insieme qualcosa di irripetibile e ancestrale ma è un assoluto sempre meno utile alla vita attiva, né sappiamo distillarne significato.
Ma così, paradossalmente, finiamo per perdere anche la pur vaga tensione verso la nostra consistenza significante, e la capacità di smascherare ogni illusione di definitività, di un punto di arrivo della razionalità umana, il punto in cui riporremo tutto nelle mani dell’impersonale.
L’io è solo un affacciarsi intermittente di attimi di consapevolezza subito inghiottiti dal depensiero, forse è questa labilità che ci fa cercare prove individuanti per trovare conferme di non essere solo un veicolo delle necessità o un flusso desiderante.
Su questa strada scopriamo che ogni atto è assolutamente unico e soprattutto irreversibile -irreparabile, nei casi in cui ci pentiamo di averlo compiuto-, come per la vita, quando è vissuta lo è per l’eternità e nulla la può cancellare né alterare, se lo fosse anche per un solo istante “tutto sarebbe concesso”.
Sii vigilante e dà vigore a quanto resta
che altrimenti finirebbe per morire.
(Apocalisse 3.2)
I concetti di unicità e irripetibilità assumono così una valenza spirituale. Averne consapevolezza non è affatto come non averla, è in questo senso che possiamo pensare l’io come responsabilità morale e assegnare la valenza sociale del merito a questo campo di senso.
Ivan Rizzi. Presidente Istituto IASSP.
Estratto dal prossimo saggio IASSP “Per merito”. Editore Rubbettino.
[1] L’aveva perfettamente descritto Robert Hughes nell’implacabile pamphlet “la cultura del piagnisteo”, in particolare rispetto alle minoranze ritenute discriminate.
[2] A. Baricco. The Game, pag. 134. Torino Einaudi. 2018
[3] Ibis. pag. 213.
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03Oct
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