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A partire dagli anni ‘50 del secolo scorso il gas naturale è diventato una delle principali fonti di energia grazie a nuovi giacimenti e allo sviluppo del trasporto tramite gasdotti o sotto forma di gas naturale liquefatto (GNL). La creazione di potenti compagnie, l’aumento della competitività e le qualità del carburante e della materia prima per l’industria chimica, hanno contribuito notevolmente a questo sviluppo, associato anche al notevole interesse per il minore impatto sull’ambiente rispetti agli altri combustibili fossili. Infatti, la crescente sensibilizzazione ai problemi ambientali dovuti all’aumento dei gas serra è diventata un tema dominante ed è stata alla base del protocollo di Kyoto del 1997, un accordo internazionale che è venuto ad aggiungersi alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici. Il protocollo incoraggiava a ridurre, tra il 2008 e il 2012, di almeno il 5% le emissioni di sei gas serra rispetto ai livelli del 1990. Tuttavia, il Senato americano dell’epoca, in maggioranza repubblicano, si rifiutò di ratificarlo, così come la successiva amministrazione repubblicana di George W. Bush.
Bush sfruttò l’inizio del suo mandato per introdurre in modo aggressivo una politica energetica basata sull’aumento della produzione americana. Con un palese conflitto di interessi, perno di questa strategia fu il National Energy Policy Development Group (NepDG), presieduto dal vicepresidente americano Dick Cheney, ex CEO di Halliburton, principale gruppo petrolifero americano. Nel maggio 2001, il NepDG presentava la National Energy Policy (NEP): l’argomento di punta del rapporto era che i combustibili fossili rimarranno insostituibili e che il gas naturale diverrà un ponte essenziale verso un futuro a bassa emissione di carbonio. Quattro mesi dopo, però, l’attacco terroristico dell’11 settembre 2011 incrinò le relazioni dell’amministrazione Bush con l’Arabia Saudita, storico alleato in Medio Oriente. A seguito degli attacchi, la United States Energy Association (USEA), che raggruppa gli interessi energetici dei settori pubblico e privato americano, emise una serie di raccomandazioni per garantire la sicurezza energetica degli Stati Uniti. In particolare, il rapporto National Energy Security Post 9/11 sollevava interrogativi importanti sulla sovranità energetica del Paese. Il rapporto insisteva sulla necessità di consentire l’accesso alle enormi riserve di gas di proprietà del Governo Federale e dei singoli Stati, aprendo ai produttori la possibilità di utilizzare le loro tecnologie senza rispettare vincoli ambientali. Nel 2004 la United States Environmental Protection Agency (USEPA) pubblicava uno studio che concludeva che la minaccia per l’acqua potabile dovuta alla fratturazione idraulica (fracking) usata per la produzione del gas di scisto era minima.
Le indicazioni contenute nel documento contribuirono all’istituzione della Energy Policy Act (EPA), promulgata da Bush nell’agosto 2005. L’EPA permise l’aumento della produzione di petrolio e gas naturale sui terreni federali e facilitò le attività di perforazione. La legge introdusse anche la famosa “scappatoia Halliburton” che esentava le attività di fracking dal rispetto della legge sulla protezione delle risorse idriche fintanto che gli operatori utilizzavano il diesel per la perforazione. Nello stesso anno, gli Stati Uniti hanno poi proceduto a deregolamentare le norme denominate Clean Water Act, Safe Drinking Act, Resource Conservation and Recovery Act, National Environmental Policy Act e Clean Air Act. In sostanza, durante l’era Bush l’industria petrolifera infiltrava la sfera politica per far approvare leggi ad essa favorevoli, utilizzava abilmente gli scacchieri geopolitici e le tematiche ambientali, insistendo sullo sviluppo sostenibile e le nuove tecnologie, per influenzare le decisioni politiche e sociali; asseriva quindi strategicamente la sua presa sulle nuove risorse petrolifere del Paese, sostenendo di voler proteggere l’“American way of life”.
Grazie a questa strategia, tra il 2005 e il 2009 il gas di scisto passò dal 4% al 15% nella produzione complessiva di gas del Paese. Durante lo stesso periodo, circa 32 milioni di litri di diesel sono stati iniettati illegalmente nel sottosuolo in 19 Stati, sebbene questa tecnica sia considerata ad alto rischio. Nel 2008 il futuro presidente americano Barack Obama presentava il progetto New Energy for America Plan, il cui scopo era quello di guidare gli investimenti verso le energie rinnovabili, ridurre la dipendenza dal petrolio straniero, combattere il riscaldamento globale e creare posti di lavoro. Nei mesi successivi, a seguito della presentazione del quarto rapporto di valutazione del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC), la COP15 di Copenaghen fissava l’obiettivo di limitare l’aumento delle temperature globali medie a massimo +2°C, ma la nuova amministrazione americana non si assunse alcun impegno in merito. Una volta eletto presidente, Obama introdusse invece l’American Recovery and Reinvestment Act, un piano di ripresa economica dopo la grave crisi finanziaria del 2007-2008. Il piano prevedeva un investimento di US $ 90 miliardi per promuovere energie pulite, concentrandosi su quattro grandi categorie: efficienza energetica, rete elettrica, trasporto ed energie pulite. Non si prevedeva nessun provvedimento sul gas di scisto, grazie all’influenza delle lobby pro-gas. Infatti, a partire da giugno 2009 la Energy in Depth (lobby pro-gas che raccoglie l’American Petroleum Institute-API, l’Independent Petroleum Association of America-IPAA e altre organizzazioni), avviarono una campagna di lobbing sul Congresso per promuovere una maggiore deregolamentazione. Obama presentò anche la Fracture Responsibility and Awareness of Chemicals Act (FRAC), che mirava a rendere pubblici gli additivi chimici usati nella produzione di gas di scisto.
La lobby del gas si oppose nuovamente, sostenendo che il disegno di legge appesantiva una regolamentazione già corposa e avrebbe potuto comportare la chiusura della metà dei pozzi petroliferi e di un terzo dei giacimenti di gas. Nonostante diversi emendamenti e proposte, la FRAC non fu mai promulgata. L’amministrazione Obama approvò anche il Climate Action Plan, l’ultimo dei tre componenti della New Energy for America Plan, che, tra le altre cose, proponeva di ridurre le emissioni di CO₂. Ma gli sviluppi tecnologici, tra cui il miglioramento della fratturazione idraulica e le tecniche di perforazione orizzontale, hanno cambiato profondamente i giochi. La produzione di gas naturale è aumentata in modo significativo e le importazioni energetiche sono diminuite, facendo prospettare il raggiungimento dell’indipendenza energetica degli Stati Uniti che, nel 2010, di fatto hanno superato la Russia e sono diventati il principale produttore di gas al mondo. Ciò ha spinto diverse compagnie a orientarsi maggiormente verso l’esportazione per approfittare delle opportunità di arbitraggio dovute ai prezzi competitivi del gas sul mercato americano rispetto ai mercati asiatici.
Così nell’agosto 2010, il Dipartimento di Stato ha lanciato la Global Shale Gas Initiative, un’iniziativa volta a suggerire a diversi governi di sfruttare maggiormente il gas di scisto nella transizione energetica. Il piano suggeriva di accordare concessioni alle società di petrolio e gas, in particolare americane, in grado di contribuire allo sfruttamento dei giacimenti di gas di scisto. Peraltro, gli sconvolgimenti relativi alle primavere arabe e le conseguenti sanzioni americane contro diversi produttori di petrolio e gas in Medio Oriente hanno fornito un’ulteriore opportunità all’industria del gas di scisto americano. Tuttavia, nell’aprile 2011, i principali gruppi ambientalisti riscuotevano un importante successo: il Ground Water Protection Council, associazione senza scopo di lucro che riunisce le diverse agenzie federali responsabili della gestione delle acque sotterranee, ha cominciato a pubblicare le liste dei prodotti chimici usati nella fratturazione idraulica. Il 2011 segna anche la nascita della coalizione Americans against fracking, che riunisce più di 270 organizzazioni americane, tra cui Greenpeace e Friends of Earth. Questa coalizione ha organizzato il primo Global Frackdown, una giornata internazionale volta a sensibilizzare e combattere il fracking. A maggio, il Dipartimento degli Interni emendava il suo regolamento per limitare la fratturazione idraulica sulle terre del governo federale e, lo stesso mese, il Vermont diventava il secondo Stato a proibire il fracking dopo New York. A metà 2012, Obama consentiva per la prima volta l’esportazione di GNL da gas di scisto, spingendo gli Stati Uniti ad assorbire quote di mercato sostanziali grazie all’instabilità mediorientale e agli errori strategici russi nel periodo post-Fukushima 2012-2014.
Di conseguenza la produzione di gas di scisto, che all’inizio del primo mandato di Obama rappresentava il 15% della produzione totale del gas naturale del Paese, è salita al 40% all’inizio del suo secondo mandato. Durante la sua visita a Bruxelles nel marzo 2014 Obama incoraggiava gli europei a ridurre la loro dipendenza energetica dalla Russia, promuovendo al contrario una massiccia importazione di gas di scisto americano. Tuttavia, nello stesso anno, i principali Paesi produttori di petrolio decidevano un significativo aumento della produzione e, di conseguenza, un ribasso vertiginoso del prezzo del greggio. Tale politica mirava a contrastare l’afflusso sul mercato di idrocarburi non convenzionali, rendendo la loro estrazione maggiormente costosa. Il calo dei prezzi generò automaticamente una riduzione dei prezzi del gas, riducendo i margini di profitto degli esportatori di GNL americani. Nel dicembre 2015, la COP21 si riuniva a Parigi al fine di ratificare un accordo internazionale di cooperazione sui cambiamenti climatici. Firmato dai 195 Paesi presenti, l’accordo di Parigi segna un punto di svolta nelle politiche ambientali. Il suo scopo era limitare il riscaldamento al di sotto dei 2°C entro il 2100 e lottare per limitarlo a 1,5°C. Si mira finalmente alla neutralità carbonica, cioè all’equilibrio tra le emissioni e l’assorbimento di gas serra a livello globale. A differenza del protocollo di Kyoto, non si fissava nessun obiettivo vincolante, ma ciascuno dei Paesi firmatari definiva i propri impegni, con un margine di flessibilità previsto per i Paesi in via di sviluppo. L’accordo entrava in vigore il 4 novembre 2016, nello stesso anno in cui l’amministrazione Obama approvava la BLM Fracking Rule, una nuova regolamentazione per limitare lo sfruttamento di petrolio e del gas di scisto sui terreni federali. Il 2016 segnò anche l’inizio della campagna presidenziale americana, nella quale il candidato repubblicano Donald Trump presentava il suo manifesto America First e spingeva per l’autonomia energetica, la deregolamentazione delle leggi ambientali e il ritiro dall’accordo di Parigi.
Con l’inizio del mandato di Trump riprendeva la produzione di gas di scisto, che aveva raggiunto una fase di stallo a causa della guerra commerciale tra gli Stati Uniti e i suoi principali concorrenti. L’aumento dei prezzi del petrolio consentiva infatti al gas di scisto americano di tornare a essere competitivo. Il primo giorno della presidenza Trump, il sito web della Casa Bianca annunciava che il Climate Action Plan era soppresso perché giudicato dannoso e inutile. La progressiva deregolamentazione permetteva ai produttori di praticare il fracking in aree fino ad allora proibite. A marzo, grazie all’influenza delle lobby pro-gas, l’USEPA non richiedeva più sistematicamente agli operatori di petrolio e gas informazioni sulle attrezzature e sulle emissioni inquinanti. Lo stesso mese, Trump chiedeva all’USEPA di modificare il Clean Power Plan (CPP) successivamente sostituito con l’Affordable Clean Energy (ACE), molto meno vincolante sui gas serra. Ad agosto, Trump nominava David Bernhardt, ex avvocato dell’IPAA, come numero 2 dal Dipartimento degli Interni. Cinque mesi dopo l’inizio del mandato di Trump, la lobby pro-gas vedeva già il nuovo presidente ordinare una riforma radicale dei regolamenti ambientali da essa considerati di intralcio. A seguito della nomina di Bernhardt, il Dipartimento degli Interni metteva in atto una serie di misure, tra le quali si segnalano: l’annullamento della legge sul fracking e l’inquinamento dell’acqua; l’annullamento della legge che limitava i cambiamenti climatici causati dalle emissioni di metano; l’annullamento della BLM; l’abrogazione della legge che proteggeva gli uccelli e le loro migrazioni dai rischi industriali relativi alla perforazione e allo sfruttamento di petrolio e gas. Nel dicembre 2017 Trump presentava la National Security Strategy, sottolineando la posizione centrale dell’America nel sistema globale dell’energia come produttore, consumatore e innovatore principale. La leadership americana era giudicata necessaria per contrastare un programma anti-crescita, dannoso per gli interessi economici e la sicurezza energetica del Paese. Oltre a continue pressioni sulla Commissione Europea per guidare le politiche energetiche di Bruxelles verso il gas, gli Stati Uniti conducevano anche una guerra spietata contro i loro principali concorrenti.
Nel 2018 gli Stati Uniti arrivano a produrre il 21,5% del gas naturale del mondo, seguiti da Russia (17,3%), Iran (6,2%), Canada (4,8%) e Qatar (4,5%). Tuttavia, l’aumento della quantità di gas americano provoca la saturazione del mercato interno. L’anno successivo, il miracolo del gas di scisto americano inizia a frantumarsi. Le aziende del settore totalizzano US$106 miliardi di debito, suggerendo la possibilità di numerosi fallimenti. Lo stesso anno avviene la fusione di due pesi massimi con l’acquisizione della compagnia americana Anadarko da parte della Occidental Petroleum, segnale evidente di un consolidamento del settore. Ma, a partire dalla fine del 2019, la pandemia di coronavirus e il rallentamento economico generalizzato portano a un generale collasso della domanda di petrolio. Di conseguenza, almeno 215 aziende nel settore vanno in bancarotta. Gli Stati Uniti fanno di tutto per evitare che loro industria fossile affondi. La Federal Reserve vola in aiuto delle aziende petrolifere e l’amministrazione Trump sospende le normative ambientali e sanitarie. Inoltre, le banche commerciali decidono di pignorare e gestire esse stesse le attività dei loro clienti per non perdere miliardi di finanziamenti. Nello stesso anno inizia la campagna presidenziale che porta alla vittoria di Joe Biden alle primarie democratiche e alla presentazione del Build Back Better Plan, che prevede una particolare attenzione alle energie rinnovabili.
Il giorno del suo insediamento, Biden firma diversi ordini esecutivi mettendo fine alla politica ambientale di Trump. Gli Stati Uniti tornano all’accordo di Parigi e introducono leggi finalizzate a: ridurre i cambiamenti climatici; adottare un’imposta sul carbonio; prendere provvedimenti per raggiungere la neutralità carbonica; chiedere alle agenzie governative di riscrivere più di 100 regolamenti emessi sotto Trump; migliorare il corretto funzionamento della USEPA, affinché essa tenga conto di tutte le emissioni inquinanti relative al fracking; interdire il fracking e l’inquinamento idrico sulle terre del governo federale; investire in ricerca e sviluppo per le energie rinnovabili; ridurre le sovvenzioni per le energie fossili sostituendole con i premi per il finanziamento delle energie rinnovabili; proteggere la fauna selvatica, compresa la migrazione degli uccelli, anche con il rimboschimento forestale; sviluppare il trasporto a bassa impronta carbonica. Nel marzo del 2021, Biden propone di investire circa US $ 200 miliardi in infrastrutture, con l’obiettivo di creare milioni di posti di lavoro, contrastare la Cina e combattere il cambiamento climatico, raggiungendo la neutralità carbonica entro il 2050. Tuttavia, con la ripresa economica del 2021 e il successivo aumento significativo dei prezzi del petrolio e del gas, il presidente americano è ora preso nella morsa tra la necessità di mantenere le sue promesse elettorali e la necessità di sfruttare l’attuale congiuntura internazionale. La guerra in Ucraina ha infatti posto l’accento sulla necessità di diversificare gli approvvigionamenti energetici europei, sollevando l’ipotesi di aumentare i rifornimenti di GNL attraverso la costruzione di nuovi terminal.
Il gas naturale, quindi, continuerà prevedibilmente a rappresentare una leva importante delle esportazioni energetiche statunitensi verso i partner commerciali, nonostante i diversi piani di diversificazione energetica adottati per far fronte al cambiamento climatico. Il caso della Germania è al riguardo abbastanza esemplare . Nel 2015 Berlino ha importato il 93% del proprio gas naturale e, solo nel 2019, le importazioni di gas naturale hanno raggiunto i US $ 30,6 miliardi, di cui l’82,6% è di origine sconosciuta. In realtà, già nel 2015 il 35% del gas naturale importato dalla Germania proveniva dalla Russia. Il resto delle importazioni di gas è suddiviso tra gasolio, gasolio liquefatto, propano liquefatto, butano liquefatto, etilene liquefatto, propilene liquefatto e GNL. Il GNL rappresenta attualmente solo €35,4 milioni di importazioni, ma il governo tedesco ha già deciso di aumentare il mix energetico, una scelta che ha prevedibilmente sollevato l’interesse delle principali compagnie petrolifere statunitensi. A lungo una delle principali fonti di energia per la Germania, il carbone ha avuto un calo vistoso, rappresentando nel 2020 solo il 15,8% del mix energetico tedesco dietro a petrolio, gas ed energie rinnovabili. Il governo ha infatti ne ridotto l’uso per limitare gli effetti nocivi sull’ambiente. La sua eliminazione definitiva è prevista per il 2030, nella migliore delle ipotesi. Al contrario, il petrolio invece rappresenta la principale fonte di energia nei consumi finali tedeschi: nel 2017 la Germania ha importato l’85,6% di questa risorsa, avendo nella Russia la sua fonte principale (32,9%), seguita da Regno Unito (12,3%), Libia (11,2%), Paesi Bassi (9,1%), Kazakistan (7,4%) e Norvegia (6,5%). 2).
Il nucleare ha invece rappresentato il 6% del consumo finale di energia e l’11,4% dell’elettricità prodotta nel 2020. La Germania ha scelto di ridurre gradualmente la quota del nucleare nella sua produzione di energia, scelta accelerata a seguito all’incidente di Fukushima del 2011. L’uscita dal nucleare, sommata alla riduzione dell’uso del carbone, aumenterà di fatto la dipendenza della Germania da altre fonti di energia. Nel settembre 2019 il governo di Angela Merkel ha adottato una strategia volta ad allinearsi ai 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile per il 2030 dell’ONU, con una particolare attenzione verso i temi dell’energia. Tra gli obiettivi principali vi è la riduzione delle emissioni di gas serra del 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, prima di raggiungere la neutralità carbonica nel 2050. A tal fine, è prevista una massiccia riduzione dei consumi energetici. Tuttavia, nell’aprile 2021 la Corte costituzionale tedesca ha ritenuto questa strategia poco ambiziosa. Il governo ha quindi dovuto rivedere i suoi obiettivi: riduzione delle emissioni di gas serra del 65% entro il 2030 e raggiungimento della neutralità carbonica nel 2045.
Tali limiti sono stati superati dal nuovo governo di coalizione, che ha annunciato l’eliminazione graduale del carbone entro il 2030, a condizione che la Germania non vada incontro a carenze energetiche e che il settore minerario non entri in difficoltà. Inoltre, è stata rivista al rialzo la quota delle energie rinnovabili nella produzione di energia elettrica: 80% nel 2030 contro il 65% originario. Per garantire questa transizione, la Germania dovrà ricorrere ad altre fonti di energia per compensare la perdita di nucleare e carbone. La scelta è ricaduta evidentemente sul gas, che avrebbe però solo un ruolo di transizione, prima di cedere definitivamente il passo alle rinnovabili. Le ambizioni tedesche rivelano però un grande paradosso. Il gas è infatti un’energia molto più inquinante del nucleare, emettendo circa 400 grammi di CO₂ per kilowattora. Inoltre, l’aumento del fabbisogno di gas renderà di fatto la Germania più dipendente dall’estero di quanto già non fosse, come mostrato dal caso relativo al progetto Nord Stream 2, gasdotto lanciato nel 2015 e la cui capacità avrebbe dovuto raggiungere i 55 miliardi di metri cubi l’anno, raddoppiando quindi la capacità del Nord Stream 1 e fornendo alla Germania circa 110 miliardi di metri cubi di gas all’anno.
Tuttavia, il progetto è stato definitivamente abbandonato a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina e delle conseguenti sanzioni internazionali contro Mosca. Berlino sta quindi studiando la possibilità di sostituire il gas con l’idrogeno, elemento chimico interessante in quanto permette di produrre calore, combustibile ed elettricità, o da utilizzare anche come materia prima. È in quest’ottica che la Germania ha adottato nel giugno 2020 la sua strategia nazionale per l’idrogeno, per una capacità prevista di 5 giga wattora (GW) nel 2030 e 10 GW entro il 2040. Tuttavia, sembra complicato sostituire il gas con l’idrogeno, che alla fine rappresenterà solo il 12% dell’elettricità prodotta. Inoltre, l’idrogeno rimane quasi esclusivamente prodotto da combustibili fossili, gas e carbone in particolare. Prosegue la ricerca sull’elettrolisi, pratica che consiste nell’iniettare elettricità in una molecola d’acqua per dividerla e recuperare l’idrogeno in essa contenuto. L’elettricità deve però essere prodotta ad impatto ambientale nullo, nel qual caso l’elettrolisi diventa praticamente impossibile. Per quanto riguarda l’energia solare, la Germania dipenderà fortemente dalla Cina, primo produttore di pannelli fotovoltaici al mondo. Prevedibilmente, Pechino continuerà a consolidare la sua supremazia, come reso evidente dall’annuncio da parte della compagnia cinese GLC a marzo 2020 della creazione del più grande impianto fotovoltaico del mondo, con sede a Hefei (provincia di Anhui). La supremazia cinese sembra difficile da contrastare, soprattutto perché la Germania non ha più alcuna compagnia nazionale produttrice di pannelli solari. Un tempo fiorente, la sua industria fotovoltaica è stata affossata dal dumping cinese.
L’energia eolica sembra invece più promettente. Nel 2019 essa rappresentava la seconda fonte di energia elettrica dopo il carbone, ma l’anno successivo si è attestata al primo posto con il 27%, contro il 24,1% del carbone. Queste cifre devono tuttavia essere messe in prospettiva: l’effetto della pandemia di Covid-19 e il clima mite spiegano ampiamente il successo delle energie rinnovabili. Come per il solare però si pone naturalmente il problema della produzione di turbine eoliche. Tra i primi dieci leader globali, sette sono cinesi. I tedeschi sono al quinto posto grazie alla società Siemens Gamesa, joint-venture tedesco-spagnola che tuttavia ha bisogno di terre rare per produrre i magneti permanenti usati dalle turbine eoliche. Sebbene non tutti i generatori richiedano magneti permanenti, questi consentono comunque una migliore efficienza, una maggiore durata e una ridotta manutenzione. I magneti, molto diffusi nell’eolico offshore, sono essenzialmente composti da neodimio e disprosio, quest’ultimo più raro e più importante del primo. Si stima che la domanda mondiale di neodimio possa raggiungere le 1.428 tonnellate all’anno (ovvero il 6% della produzione mondiale) e quella di disprosio le 268 tonnellate (il 30% della produzione mondiale) entro il 2030. Se si considera che nel solo 2017 la Cina ha prodotto l’86% di terre rare e magneti permanenti contro il 3% della Germania, il legame di dipendenza tra i due Paesi appare del tutto evidente. In conclusione, la scelta tedesca di rinunciare a qualsiasi forma di dipendenza energetica a favore di una scelta ecologica appare del tutto relativa. L’incidente di Fukushima ha avuto certamente un effetto profondo, mentre il riscaldamento globale sta accelerando questa transizione che però costringerà la Germania ad aumentare le sue importazioni di gas per compensare il ritardo nell’avvio delle rinnovabili, aumentando le emissioni di CO₂. Inoltre, l’uso massiccio di rinnovabili costringerà Berlino ad approvvigionarsi principalmente dalla Cina.
Articolo di Giuseppe Gagliano, relatore del Master Iassp e Presidente Centro Studi Strategici Carlo de Cristoforis – Cestudec, pubblicato sulla rivista di politica internazionale Geopolitica Vol.XI-N.1-2 2022 GENNAIO DICEMBRE
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