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Jul
Gettiamo uno sguardo sul Mediterraneo. Questo Mare rappresenta circa l’1% delle acque del Pianeta, ma gestisce un quinto del traffico merci mondiale. Uno spazio nevralgico sia per la dimensione geopolitica, sia per la sua collocazione strategica, da cui passano traffici merci prioritari verso l’Europa, ma anche diretti verso i Paesi del golfo e l’area indo-pacifica. Rappresenta anche un teatro di problemi: pensiamo, per fare un esempio, alla nave incagliata nel canale di Suez, che faceva perdere ogni giorno miliardi in termini di mancati guadagni commerciali.
Il contesto particolare dell’Africa del nord, che si affaccia sul Mediterraneo, è ancora più paradossale. Un’area profondamente interconnessa, che ha un enorme potenziale, ma è sconvolta dalle primavere – anzi, rivolte! – arabe. Fino al 2011, questi territori sono rimasti relativamente stabili: Mubarak è stato al potere trent’anni in Egitto; Ben Ali in Tunisia per più di venti e Gheddafi – il nostro amico-nemico – ha governato la Libia con il pugno di ferreo ben 42 anni. Che ci piaccia o no, avevamo rapporti consolidati con quelli che oggi chiamiamo “dinosauri del passato” o “dittatori”, ma che all’epoca erano solo uomini con cui riuscivamo a fare affari.
I confini sono diventati estremamente porosi, soprattutto quelli della Libia dove, caduto Gheddafi, il sistema tribale che sussisteva prima, dall’Impero Ottomano, è riemerso. Gruppi jihadisti e criminali hanno preso il potere e, quando si tratta di avere rapporti ufficiali, non si riesce a individuare un unico capo politico; le tribù hanno non poche milizie e spesso riescono a occupare porzioni di territorio, gestire il traffico di migranti o bloccare i pozzi di petrolio. Molti attori internazionali fanno però affari con loro, perché per andare in Libia con una valigetta, giocoforza, si deve trovare l’interlocutore giusto, che sicuramente non è né Baba che governa l’Ovest, né Haftar che governa l’Est.
Questo è un problema per le nostre imprese, perché, di fatto, abbiamo perso tantissimo. Prima delle rivolte arabe, l’Italia era il primo partner commerciale della Libia; eravamo fra i collaboratori nel campo energetico dell’Egitto – dove abbiamo scoperto alcuni importanti giacimenti, che si sono poi ampliati, come Zohr – e avevamo un ruolo importante in Algeria. Gestivamo appalti in Siria, per esempio nel settore ferroviario e delle costruzioni (vedi la città di Homs). Pensate che quattro giorni dopo l’omicidio di Giulio Regeni, quando abbiamo ritirato il nostro ambasciatore dall’Egitto, l’allora presidente francese Hollande si è recato con una folta delegazione di circa 500 imprenditori per firmare contratti per svariati miliardi in armamenti e costruzioni, che prima gestivamo noi.
Cosa può fare l’Italia per recuperare la propria posizione nel Mediterraneo? Oggi siamo una media potenza, lo sappiamo e sicuramente bisognerebbe elaborare un’agenda strategica per il Mediterraneo e una visione autonoma. La prima area su cui agire, a mio giudizio, è la diplomazia. In Egitto, un nostro storico partner commerciale, abbiamo solo sette diplomatici in servizio, mentre la Germania, per esempio, ne ha 21. Quindi, da un punto di vista diplomatico, attualmente non stiamo facendo nulla. La seconda fase prevede di sviluppare progetti concreti nel Mediterraneo, con focus sul Nord-Africa, perché contare nel Mediterraneo vuol dire contare in Europa, e ricordiamoci che come media potenza non possiamo da soli rapportarci alla dimensione internazionale. Terzo, dobbiamo rafforzare esponenzialmente il nostro supporto alla portualità, all’impresa e alle infrastrutture del Mezzogiorno. Nel 2016 i porti di quest’area hanno movimentano oltre il 42% del totale merci nazionale, quindi è molto importante potenziarne le infrastrutture. Ci sono tanti porti importanti che possiamo potenziare per avere degli interscambi maggiori ed è chiaro che senza questo requisito strutturale, non possiamo fornire il dovuto supporto alle aziende. Questo sarebbe il quarto punto, creare un sistema di sostegno alle imprese che vogliono investire e lavorare all’estero. Se non c’è un supporto da parte dell’intelligence, è facile prendere qualche fregatura. Perché non creare, come è stato già fatto, dei consorzi pubblico-privati? Per esempio, fra pescatori libici e siciliani; lavorare cioè sulla cooperazione decentrata. In fondo, il metodo italiano è molto diverso da quello tedesco o francese. I libici così come i tunisini vogliono collaborare con gli italiani, in un’ottica di reciproco vantaggio. Noi italiani abbiamo sicuramente una via privilegiata per il Nord Africa, che nasce dalla nostra storia, ma anche dalla nostra cultura.
Michela Mercuri, Docente universitario, analista di politica estera.
Estratto della lectio del Master In Intelligence economica. IASSP 2023.
(A cura di Andrea Meneghel)
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