08
Jun
L’esigenza di uno Stato integrato.
L’economia è diventata la prosecuzione della guerra in altra forma: tra gli Stati serpeggia una crescente competizione, integrata non solo sul piano militare tradizionale e su quello geostrategico, ma anche e soprattutto sul piano economico. L’intelligence economica, quindi, si sviluppa su questa interdipendenza e integrazione fra economia e guerra. Gli Stati hanno una propensione sempre più marcata a integrare nelle proprie attività di intelligence i Servizi e gli altri apparati dello Stato, così come la collaborazione con le imprese. Questo è forse il vero punto di differenza rispetto al passato. Un moderno concetto di intelligence economica implica, come per tanti altri argomenti, una maggiore collaborazione tra strutture pubbliche e strutture private. Quella che va costruita è una grande visione integrata del sistema-Paese. Uno Stato diventa efficace non tanto in rapporto alla sola intelligence economica, ma soprattutto per quanto sa mettere a sistema e rendere fruibili, interrogabili, gli apparati statali. Come si dice oggi, si tratta di mettere in rete tutte le conoscenze e i metodi di protezione delle conoscenze che caratterizzano la vita di un sistema-Paese.
Ci sono degli esempi storici da cui possiamo trarre insegnamento per questo moderno concetto di intelligence economica. Si veda il modello classico, citato in letteratura, della Repubblica di Venezia. La Repubblica di Venezia per un migliaio di anni è stata un’importante player economico, politico, sociale e culturale nel bacino mediterraneo. Pur essendo uno Stato di dimensioni ridotte, relativamente marginale da un punto di vista geografico, ha saputo valorizzare la propria posizione strategica. Come avrebbe fatto l’Olanda qualche secolo dopo, ha saputo legare, mettere a sistema in modo molto efficace l’interesse di Stato con l’interesse commerciale privato. Dovremmo studiare la Repubblica di Venezia e riproporre, in un certo senso, il suo modello attualizzato nel XXI secolo: un modello di forte sinergia e collaborazione fra la potenza militare, l’intelligence e il commercio.
La leadership nel nuovo panorama
L’economia e la guerra, o la competizione militare, possono in sintesi essere lette come parti dello stesso capitolo. La security si inserisce più di quanto facesse in passato (e qui si potrebbe aprire il grandissimo problema sulla cybersecurity) perché proteggere l’informazione può essere fondamentale all’interno di una competizione fra Stati. Oggi si parla anche di “marketing intelligence”: le stesse ricerche di mercato tradizionali fanno parte di un settore più ampio in cui si usa molto il web e la web analysis. Come impostare dunque, in modo corretto, questa ricerca? Quale attrezzatura mentale un leader deve portare con sé per maneggiare informazioni, in particolare informazioni economiche? Daremo qualche suggestione su questo argomento.
Nel nuovo panorama in via di evoluzione, un leader a qualsiasi livello non può non saper maneggiare le informazioni economiche: gran parte delle decisioni che vengono prese, anche e soprattutto politiche, devono avere un qualche fondamento presso i sottostanti processi economici. Sulla base dell’informazione raccolta si definiscono gli scenari e si sviluppano possibili alternative strategiche, a seconda del contesto ritenuto più probabile. In seguito si monitora il grado di attuazione; infine si traggono le conclusioni, valutando l’efficacia della decisione intrapresa. Anche le aziende seguono questo protocollo per le politiche relative al proprio mercato. Si tratta di una attività multidisciplinare e interdisciplinare, poiché fasi diverse del ciclo richiedono competenze diverse: per esempio, l’informatica per la raccolta, la selezione e la protezione dei dati, l’analisi comportamentale per le probabilità di manifestazione dei vari scenari, il campo probabilistico su cui occorre acquisire sensibilità e via dicendo.
Un buon leader deve essere innanzitutto un abile architetto di scenari. I dati possono dar luogo a ipotesi molto diverse fra loro e per questo esistono delle metodologie in grado di aiutare gli analisti. Una di queste è il metodo Delphi per la costruzione di scenari. Si tratta di un metodo molto umano, elaborato negli Stati Uniti per affrontare argomenti legati alla guerra fredda. Comporta la creazione di un panel di esperti, pochi ma di spessore, che abbiano delle meta-competenze. Si fa come prima cosa un giro di interviste individuali, per delineare l’evoluzione possibile di un singolo fenomeno; alla fine del giro, ogni ricercatore riceve una risposta da parte di ogni altro intervistato e crea una sintesi. Questa sintesi viene mandata a gruppi misti di esperti che lo leggono individualmente e poi formulano una seconda previsione individuale. Le previsioni tornano al ricercatore, che fa di nuovo una sintesi tenendo conto degli adattamenti. Infine rimanda il rapporto per un terzo giro. È un metodo iterativo: un bell’esempio di superamento dell’antinomia individuale attraverso la discussione collettiva. Razionale e intuitivo, il Delfi è bello perché è la somma di più previsioni e supera le tradizionali antinomie.
Riprendendo il tema della leadership, cosa deve saper fare oggi un leader se articoliamo il suo compito nel settore dell’intelligence economica? Dobbiamo menzionare certamente capacità tecniche e legate all’humanitas e altre caratteristiche che deve padroneggiare a livello alto o semplicemente situazionale. Prevalgono comunque due linee di pensiero consolidate sulle qualità date per assodate: la prima linea di pensiero implica un uso sempre maggiore degli strumenti tecnologici, poiché i dati sono disponibili in quantità che vanno oltre la capacità di calcolo di un essere umano; la seconda si concentra sull’empatia come chiave privilegiata e vede nella scuola del management di 4a generazione il riferimento più influente.
La fascinazione per la tecnica e il nuovo Medioevo
Parliamo della prima linea di pensiero, quella tecnologica. Qui si apre un tema molto complesso su cui nessuno ha dato ancora la risposta giusta: che rapporto c’è fra umano e artificiale? La posizione dominante, almeno nel paradigma occidentale, è che dobbiamo rassegnarci a cedere sempre più potere a entità e intelligenze che non sono naturali, se vogliamo mantenere la nostra crescita. La tesi di un filosofo e storico israeliano molto noto, Yuval Harari, sostiene al contrario che così facendo si segue un cammino di snaturamento dell’umano attraverso l’artificiale. Correremmo dunque il rischio di delegare non solo troppo potere, ma anche troppa fiducia a questi sistemi la cui evoluzione conclusiva non ci è nota. Il fatto che potrebbero fondersi sempre più intensamente con l’umano, non necessariamente in termini fisiologici ma certamente funzionali, espone a una alienazione del nostro vissuto.
Dobbiamo ragionare in termini di equilibrio: ci siamo forse concentrati troppo sulla mitologia della tecnica e non sarebbe la prima volta che nella storia dell’umanità avvengono delle fascinazioni culturali. Oggi stiamo attraversando quella per il digitale. Alcuni studiosi ritengono che non siamo alle soglie di un nuovo Umanesimo, ma di un secondo Medioevo. L’ingegnere Roberto Vacca, negli anni ‘70, scrisse che i prossimi tempi saranno simili al Medioevo non tanto nelle condizioni di vita, quanto nelle architetture mentali. Quell’epoca, che noi caratterizziamo per un globale imbarbarimento, in realtà è stata un grande periodo di sviluppo della tecnica. Questa accezione differente la dobbiamo al lavoro di lodevoli studiosi e divulgatori. Al contrario, l’Umanesimo, da noi associato a grandi scoperte, è stato un periodo più propizio allo sviluppo del pensiero e del metodo scientifici piuttosto che della competenza tecnica. Attualmente staremmo entrando in una fase di dominio della tecnica: la fascinazione fideistica che abbiamo nei confronti della digitalizzazione e degli algoritmi, il fatto che parliamo troppo di intelligenza artificiale è troppo poco di intelligenza naturale sono indizi che tale ricostruzione possa essere verisimile. La relazione fra umano è artificiale deve essere basata su una sana diffidenza reciproca: non bisogna essere contrari ma nemmeno cadere nell’affidamento cieco, che è la forma di pensiero magico della nostra epoca.
La quarta generazione di manager
A metà degli anni ’90 è nata in Francia una corrente di pensiero nel campo manageriale, chiamata “management della quarta generazione”. Quali sono state le tre generazioni precedenti? La prima teoria manageriale di epoca moderna è il cosiddetto taylorismo, un sistema alla cui base è posta la catena di montaggio. L’uomo è visto come macchina da rendere più efficiente possibile durante il turno di lavoro. Ciò era ottenuto attraverso lo scomponimento di un processo industriale in fasi sempre più piccole e intensive. Ancora negli anni ’80 esistevano inserzioni per la ricerca di analisti di tempi e metodi, una figura professionale specializzata nello scomporre il lavoro di qualcun’altro in fasi della catena di montaggio. Ci si è rapidamente resi conto che questo processo porta alla saturazione mentale e infine abbassa l’efficienza. All’altezza degli anni ‘30 è nata una seconda corrente di pensiero chiamata scuola delle relazioni umane. Attraverso una serie ben congegnata di esperimenti sul campo, si è dimostrato che l’essere umano rende di più quand’è inserito in una rete di relazioni. Le catene di montaggio si sono così evolute in un moderno sistema ibrido, chiamato isole produttive: una via di mezzo tra produzione lineare e processi cooperativi circolari. Una cosa che sicuramente differenzia l’umano dall’artificiale è la motivazione: un robot è anelastico, segue un algoritmo per fare ciò che gli viene chiesto e non si stanca mai di farlo; non prova mai frustrazione, non ha progetti, desideri o impulsi e non ha nemmeno bisogno di interagire con altri algoritmi per restare sano. Dalla scuola delle relazioni si è capito che noi non siamo artificiali, ma ci avviciniamo alla somma di tante componenti (il pensiero, il sentimento, il bisogno) e rendiamo il massimo quando ci troviamo in un rapporto complementare rispetto alle nostre parti. Si arriva così al terzo modello manageriale, nato negli anni ’70, la teoria dei sistemi. Governare un’azienda non significa solo creare algoritmi e presidiare le relazioni umane, ma compendiare una serie di aspetti legati alla gestione delle competenze e alla conoscenza dell’ambiente. Ci aspettiamo da un buon Ministro della difesa che sia competente nel campo degli armamenti, anche se questo non basta per fare di lui un leader. Questa teoria è ancora prevalente, ma dovremmo presto abituarci a un nuovo modo di strutturare il management, perché queste visioni hanno evidenziato ciascuna i propri limiti; vedono soprattutto l’economia in modo lineare, mentre l’essere umano è complesso.
Arrivo al punto da cui ero partito: la quarta generazione di manager farà uso del paradigma bio-psico-sociale, che consiste nel guardare all’essere umano per ciò che è e per il modo in cui si è evoluto e, soprattutto, alla sua differenza dalle macchine. Un condottiero come Alessandro magno, un ragazzo di meno di 25 anni che ha saputo muovere oltre 100.000 persone in una impresa all’epoca ritenuta minimamente probabile, avrà parlato ai propri soldati non di sottigliezze tecniche, ma al loro cuore. Questo è il concetto di management della quarta generazione: rivalutare caratteristiche che l’intelligenza artificiale non ha, come l’empatia. L’empatia, per esempio, ci appartiene grazie a strutture chiamate neuroni specchio, che forniscono il sostrato per questa capacità così apparentemente umanistica e straordinaria.
Conclusioni
Per essere buoni leader del XXI secolo bisogna padroneggiare competenze di ordine superiore, che si chiamano meta-competenze. Sviluppare una meta-competenza non significa conoscere nei dettagli un argomento, ma saper maneggiare a un livello superiore gli stessi contenuti; significa saper cogliere l’importanza di un tema attraverso certamente gli strumenti tecnologici, ma anche con l’aiuto di una squadra. Quando un uomo si trova da solo è più probabile che commetta errori, anche se competente in una materia, ma se prima di prendere una decisione si confronta con una comunità di esperti il margine diventa più ridotto. Per fare una buona intelligence economica abbiamo bisogno di leader che siano realmente meta-competenti e non solo strettamente competenti e che sappiano usare sistemi di intelligenza artificiale. Il manager del XXI secolo, più che un esperto di processi, sarà un attento conoscitore dell’allineamento fra le componenti intrinseche all’umano. Bisogna immaginare dei percorsi di formazione adeguati alle meta-competenze e una graduale introduzione a questo modo di considerare la conoscenza.
Ci sono alcune cose di cui i manager dovranno occuparsi nel futuro e avranno tutte a che fare con l’imprevisto, non con l’analisi delle tendenze ma con l’individuazione delle rotture dei trend. I “cigni neri” sono per definizione ciò che gli algoritmi previsionali del tipo tradizionale non possono identificare, poiché rappresentano eventi rari, imprevedibili, con un forte impatto sull’andamento della storia. Dovremo affrontare la stagione dei cigni neri ricorrendo all’intuizione, al pensiero sincretico, che sono caratteristiche dell’umano. Vorrei concludere questo intervento con un appello a valorizzare ciò che è proprio dell’essere umano, facendolo interagire in modo sicuro e fattuale con ciò che non è umano: solo attraverso l’equilibrio si può rimettere al centro l’antropologia come categoria del futuro.
Alessandro Amadori – Psicologo, saggista e sondaggista Studio Nicola Piepoli, Estratto della lectio del Master In Intelligence economica. IASSP 2023.
(A cura di Andrea Meneghel)
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03Oct
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