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Apr
Questo è l’argomento della sessione. Accentuato dalla situazione internazionale, particolare dovuta alla pandemia prima e alla crisi in Ucraina dopo, che sta mutando quello che è l’ordine mondiale e i rapporti a livello geopolitico ed economico delle realtà statuali. La guerra in Ucraina sta amplificando notevolmente alcuni problemi. Mi riferisco in modo particolare all’aumento, che tutti quanti abbiamo avvertito in maniera molto sensibile, del costo delle materie prime, che è stato accentuato dalla crisi dei semiconduttori. Una crisi agroalimentare inoltre, a livello globale, accentuata appunto dalla guerra in Ucraina, che ha utilizzato quale strumento di pressione anche quello del trasporto di generi alimentari di prima necessità.
Una rottura di quelli che sono gli equilibri fra i Paesi membri dell’Unione Europea e una potenziale, ma anche reale, minaccia a quelle che sono le prospettive di crescita dei Paesi, nel caso particolare l’Italia. Quindi, in questo contesto, appare evidente come le capacità di Intelligence economica assumano un’importanza ancor più cruciale, diventando parte integrante di quello che è il sistema-Paese, vale a dire la capacità delle organizzazioni pubbliche di reagire alle minacce. Minacce che pongono a rischio la sicurezza degli interessi collettivi. Si avverte ancor più la necessità di un potenziamento massiccio dell’Intelligence economica, intesa quale strumento di difesa, ma anche come capacità di pianificare su vasta scala quelle che sono le politiche industriali strategiche. Per fare questo in modo informato dobbiamo partire da un presupposto, ossia che le alleanze economiche non esistono fra Paesi che cooperano o si relazionano tra loro. In intelligence non esiste il termine “amica” e questo esalta ancor di più quelle che sono le capacità di dotarsi di una struttura di Intelligence organizzativa interna, la più efficace possibile. Pensiamo alla crisi energetica, con tutto ciò che essa ha comportato e sta comportando. Il contesto storico attuale è segnato appunto da un conflitto che fa emergere in maniera molto evidente come la sicurezza energetica, e quindi quella degli approvvigionamenti energetici, divenga un importante strumento nonché un indicatore geopolitico, mettendo in evidenza anche fattori che nel tempo, quando c’era abbondanza, sono stati trascurati; pensiamo per esempio al tema della elevata dipendenza dall’estero, ma ancor più a quello della concentrazione delle forniture su un numero ristrettissimo di attori. L’Italia aveva una dipendenza particolarmente sostenuta dal Paese che, in questo momento, sta creando grandi turbolenze a livello europeo e a livello internazionale: la Russia.
È stato necessario l’avvio di un processo di diversificazione dei fornitori, che nell’immediato ha comportato un aumento dei prezzi esponenziali di gas e petrolio; ci siamo dovuti perciò rivolgere nell’immediatezza a nuove, maggiori forniture da Paesi che storicamente ci fornivano gas e petrolio, ma in misura nettamente inferiore, rispetto a quello che proveniva dal grande fornitore che era la Russia. Pensiamo alla Libia, con tutti i problemi che la stessa, in questo momento, sta affrontando e con quelli che sostiene di norma, quando si deve porre sui mercati internazionali, per la fornitura di questa tipologia di beni. Pensiamo poi all’Algeria, all’Azerbaigian, al Qatar, con la specificità della fornitura del gas allo stato liquido, comportante difficoltà per la trasformazione della stessa allo stato gassoso; i limiti quindi non sono soltanto quantitativi ma connaturati alla possibilità di trasformare questo gas nel nostro Paese dallo stato liquido allo stato gassoso. Avete visto arrivare in questi giorni il rigassificatore, peraltro dopo una lunga attesa, nel porto di Piombino, con tutta una serie di problemi sui quali non mi soffermo ora. Tutto questo ha fatto crescere il valore di altre aree, come il bacino del Levante, cioè quell’area fra Egitto, Libano, Cipro e Israele.
Un piccolo inciso: c’è un Paese che in questa fase è molto attivo sugli scenari internazionali, la Turchia, attore particolarmente dinamico, che sta traendo grandi vantaggi dalle oggettive situazioni di difficoltà a livello internazionale. Ricordo che nell’ottobre 2022, al vertice di Astana tra il presidente turco Erdogan e il presidente russo Putin, la Turchia è stata invitata dalla Russia, in maniera certamente strumentale, a trasformarsi in una sorta di hub energetico regionale, al fine di trasportare il gas russo verso l’Europa. È chiaro che l’invito così rivolto alla Turchia non è da intendersi come elargizione gratuita, ma comportante interessi fondamentali: c’è un intento evidente di strumentalizzare la posizione della Turchia e di utilizzare questo Paese per gli interessi della Russia.
Un altro aspetto sul quale l’intelligence economica è chiamata a misurarsi è quello della transizione energetica. Perché dico questo? Perché noi stiamo correndo il rischio di sottovalutarla, così come abbiamo sottovalutato la dipendenza eccessiva da un unico Paese. Stiamo infatti rischiando di fare altrettanto, quando parliamo di transizione energetica, perché alla base della stessa sappiamo tutti quanti che occorre la disponibilità di un materiale, le cosiddette “terre rare”. E’ ben evidente e noto, per quel che è dato conoscere, che un Paese al mondo, la Cina, ha sostanzialmente il monopolio quasi esclusivo sulle terre rare, un monopolio costruito con lungimiranza, sotto questo punto di vista, avendo quel Paese creato una serie di accordi con Paesi particolarmente ricchi di terre rare; questo ha comportato la disponibilità dalla parte della Cina di un quantitativo pressoché illimitato, ma esclusivo, di tale materiale. Teniamo ben presente tutto questo e ciò che potrà avvenire in futuro, qualora il processo di transizione energetica non si dovesse accompagnare anche a un processo di diversificazione nell’approvvigionamento di tali materiali, che sono assolutamente necessari.
L’intelligence economica a questo punto diviene uno strumento potente al servizio del Paese, perché ha lo scopo di coniugare una visione strategica di lungo termine, propria delle istituzioni, con l’agilità del settore privato. Il rallentamento dell’economia a livello internazionale amplifica quella che è la concorrenza fra gli Stati, accentuando quindi il concetto che possiamo chiamare di “guerra economica”, condotta con strumenti diversi e che richiede delle scelte e delle strategie ben precise.
Appare fondamentale dotarsi di strumenti efficaci per conoscere preventivamente, per analizzare e per fornire al decisore politico le informazioni atte a compiere delle scelte lungimiranti ed efficaci. Cosa significa conoscere preventivamente delle informazioni? A cosa è sottesa la conoscenza preventiva delle informazioni? La conoscenza preventiva delle informazioni consente di analizzare tutta una serie di elementi, come il comportamento dei clienti ed il comportamento dei competitor, di identificare i modi per massimizzare i profitti, di fare un confronto con i dati dei concorrenti, che bisogna appunto conoscere. Scopo dell’Intelligence è: monitorare le prestazioni e migliorare quindi le operazioni; prevedere le dinamiche del successo e cosa è necessario per ottenerlo durante la competizione; individuare quelli che sono i trend di mercato, intercettarli preventivamente e quindi illustrarli e informarne il decisore; scoprire complicazioni o problemi.
L’intelligence economica si affianca a quella che è la business intelligence, dovendo assolutamente creare le condizioni necessarie ed acquisire le informazioni utili, per dare delle risposte concrete alla business intelligence. Tutto questo è una novità? Assolutamente no. Non è una novità, perché, se noi andiamo con lo sguardo al passato, possiamo vedere come il tema dell’intelligence economica fosse ben conosciuto già ai tempi della Serenissima Repubblica di Venezia. Intendo riferirmi a quello che per i tecnici è il concetto del “viaggiatore legale”, quello che già dai tempi della Serenissima appunto veniva utilizzato dai Dogi per conoscere e acquisire informazioni all’estero sui vari mercati, per capire quelle che erano le tendenze, i fabbisogni e i mercati più favorevoli o quelli più utili strumentalmente alle politiche di espansione della Serenissima medesima. Questo lo avevano capito molto bene: è una, sicuramente, delle ragioni che hanno consentito alla Repubblica dei Dogi di diventare una potenza, pur essendo una piccola città. Alla base di tutto questo c’era la capacità di sfruttare le informazioni che derivavano dai mercanti, che in giro per il mondo e stando nei porti acquisivano sui concorrenti, vedevano quali erano le richieste e capivano i mercati più favorevoli per gli acquisti e per le vendite di quelle che allora erano le cose più rare, cioè le stoffe, le spezie e materiali simili di approvvigionamento.
Ancor prima, il popolo vichingo, intorno all’anno 1000, arrivò a fondare importanti insediamenti in Scozia, in Normandia, in Islanda e persino lungo le coste canadesi. I vichinghi già allora facevano ricorso all’intelligence economica per mezzo di una tattica militare molto collaudata. Più che al commercio, guardavano con atteggiamenti ostili ad altri Paesi, dei quali, attraverso i loro informatori, sapevano quando partivano le navi, quali erano quelle che trasportavano i materiali di maggior valore, che avrebbero consentito loro di conseguire dei bottini ricchi.
Il discorso ci porta a concludere che l’intelligence economica non è un’invenzione dei nostri giorni, ma è un processo che parte da lontano. Nel 1630 la Svezia ha creato quelle che erano le basi dell’Intelligence moderna, ad impronta economica. È l’anno in cui loro crearono un particolare istituto dedicato ufficialmente allo sviluppo dell’industria mineraria e del settore metallurgico. In realtà era un istituto dedicato anche alla raccolta di informazioni. La Svezia ha pure creato una delle prime banche che si sono avvalse di un processo di intelligence finanziaria, con un dipartimento dedicato proprio all’acquisizione delle informazioni. Oggi nel comparto Intelligence svedese, l’intelligence economica ha uno spazio enorme, questo perché la Svezia è caratterizzata da una demografia tutto sommato modesta e da un mercato interno conseguentemente limitato e piccolo, due fattori che la rendono fortemente dipendente dai mercati a livello internazionale, risultando quindi fondamentale essere competitivi a livello internazionale. Pensate a tutte le grandi aziende che la Svezia racchiude e rappresenta, che non trovano corrispondenza con quelle che sono le dimensioni demografiche e territoriali del paese stesso. Da qui nasce l’esigenza di essere competitivi attraverso il sistema dell’intelligence economica.
L’intelligence economica rappresenta un modo per entrare nel mercato e un valore come parte integrante del sistema-Paese. È appunto la capacità delle organizzazioni pubbliche e private di promuovere e difendere efficacemente quelli che sono gli interessi collettivi. L’intelligence, in tutti i Paesi moderni, è una parte integrante del fare sistema e utilizza degli strumenti che sono sia convenzionali, sia non-convenzionali. Non è, come dicevo, un elemento di carattere esclusivamente spionistico, anzi, i Paesi che hanno avuto maggior successo da questo punto di vista, che meglio performano sotto il profilo dell’intelligence economica, sono quelli che si avvicinano a questo tema con un atteggiamento olistico, ritenendo che l’intelligence sia un sistema che mette insieme tante realtà e tante organizzazioni diverse fra loro ma complementari. Queste organizzazioni, nel loro insieme, rappresentano appunto il sistema-Paese, cioè un modo e un sistema che dà un vantaggio competitivo rispetto a economie concorrenti.
L’Italia ha sviluppato da questo punto di vista, e sta tuttora sperimentando, uno sviluppo di intelligence economica del tipo “top-down”, cioè un modello che prevede un impulso da parte delle istituzioni, che avvertono il bisogno di dotarsi di strutture che, attraverso le sinergie con i principali player economici a livello nazionale, supportino quelle che sono le decisioni politiche.
Partiamo da una premessa: i conflitti moderni si sono spostati da un campo di battaglia tradizionale a quello rappresentato dalla competizione economica. Uno dei primi ad avvicinarsi in modo direi quasi scientifico a questo tema in Italia è stato il compianto Presidente Cossiga. Già a suo tempo, egli costituì una Commissione – la Commissione Ortona – finalizzata a individuare delle dinamiche, degli assetti e dei processi che potessero indirizzare l’Intelligence verso obiettivi di carattere economico. Il tema è stato riproposto poi successivamente dal Governo Prodi, che nominò una seconda Commissione di questo tipo, la Commissione Jucci.
Abbiamo raggiunto una situazione consolidata normativamente solo nei primi anni 2000. A livello normativo la tematica economica è stata introdotta per la prima volta in modo chiaro dalla legge 124 del 2007, che ha costituito il comparto di intelligence così come lo conosciamo oggi: articolata su due agenzie e un dipartimento coordinato dalla presidenza del consiglio.
Cosa manca ancora, a mio avviso, nel nostro Paese? Manca una consapevolezza che deve essere incentivata e fatta crescere: è la consapevolezza da parte del mondo economico e del mondo accademico italiano. Perciò ben vengano le iniziative come lo IASSP, che cercano di diffondere la cultura dell’Intelligence fra chi andrà un domani non solo nell’intelligence, ma anche in quelli che sono i gangli vitali del Paese, cioè l’economia e le istituzioni. Quelli che saranno i futuri manager, i futuri imprenditori, i futuri decisori. Si spera che vengano messe a frutto, in un modo appunto più olistico, queste capacità. Fra tutte le figure, occorre un complesso volto alla raccolta informativa nel settore economico, che è dato non solo dagli operatori tradizionali (cioè dagli appartenenti al comparto Intelligence) ma, all’interno del sistema-Paese, è dato da chiunque abbia interesse a garantire la crescita e la competitività del sistema medesimo. Lo scopo dell’intelligence economica è: sostenere l’internalizzazione delle imprese italiane e favorire un raccordo istituzionale fra soggetti diversi, che hanno interesse nella crescita del nostro Paese.
Tema particolarmente avvertito nel nostro Paese è lo scrigno di eccellenze che vanno sotto il nome di made in Italy; quindi, il nostro know how, che dobbiamo assolutamente difendere, proteggere e promuovere. Questo è un altro dei compiti fondamentali dell’Intelligence economica.
Altro scopo dell’Intelligence crediamo sia quello di prefigurare i rischi e le opportunità. Voglio dire, un Paese che si voglia dare una dimensione internazionale deve sapere anche in quali aree andare a stabilire sé stesso per confrontarsi e conoscere i rischi. Occorre fare scelte avvertite e scelte informate, sia in termini di rischi sia in termini di opportunità. Un’altra finalità è conoscere in anticipo e individuare quelle che sono le regioni, le attività e i settori i cui comparti abbiano maggiori prospettive di crescita.
Qual è lo scopo di chi ha a cuore lo sviluppo dell’intelligence economica e di chi professionalmente si dedica a questa attività? È quello di promuovere, come dicevo, su vasta scala una cultura dell’Intelligence economica, per la quale non è sufficiente un comparto tecnico, perché sarebbe riduttivo. Garantire quindi una corretta interazione, sempre secondo le regole, tra il comparto intelligence e la componente politica nazionale e assicurare una fluida circolazione delle informazioni strategicamente rilevanti.
Non ci dimentichiamo che grandi soggetti economici quali Leonardo, ma non solo Leonardo, sono presenti sostanzialmente a livello internazionale in tutti i Paesi. Mi ricollego al concetto dal quale sono partito. Il viaggiatore legale (ogni italiano che svolga un’attività professionale all’estero) è sicuramente non solo spettatore, ma conoscitore di trend, fenomeni, rischi e opportunità e deve sentire la responsabilità, facendo parte di un sistema, di mettere questo sistema in condizione di funzionare al meglio e, ripeto, secondo interazioni che hanno le loro regole legali.
Le direttrici dell’Intelligence economica sono sostanzialmente due:
- una modalità difensiva, che è quella che si concentra sulla penetrazione economica estera talvolta aggressiva, cioè non proprio deontologicamente corretta, per usare un pò di under statement e per non dire altro; su questo poi farò un piccolo approfondimento, con riferimento a una penetrazione da parte di un Paese a noi molto vicino, la Francia;
- una modalità proattiva, se non vogliamo chiamarla offensiva, comunque necessaria per garantire questa proiezione internazionale del nostro Paese.
Gli obiettivi sono quelli di migliorare e integrare quelle che sono le migliori energie, sia pubbliche che private, per una strategia economica che venga elevata a sistema; creare un ecosistema che coinvolga tutti questi soggetti – a cui ho fatto variamente e ripetutamente riferimento – pubblici e privati. Tutto ciò, partendo dal presupposto che la business e la competitive intelligence sono parte integrante dell’intelligence economica, riferita a quella parte industriale e commerciale del sistema-Paese. Quando parlo di intelligence collettiva intendo riferirmi proprio a questo: alla necessità che tutti si sentano parte di questo sistema, facendo confluire quelle che sono le informazioni più qualificate al vertice politico, per metterlo in condizione di fare delle scelte di policy informate, efficaci e che consentano di coordinare tutti gli sforzi.
A mio avviso, ci sono tre Paesi che da questo punto di vista hanno una tradizione e una qualità invidiabile: Stati Uniti, Francia e Giappone.
Gli Stati Uniti già da tempo si sono dotati di una organizzazione di intelligence economica, partendo dalla creazione di strutture come l’Advocacy Center, che è sostanzialmente una sorta di tavolo della guerra economica nell’ambito del Dipartimento del commercio, che è in stretta connessione con le diverse agenzie di Intelligence americane. Gli USA, da questo punto di vista, hanno dimensioni chiaramente molto maggiori rispetto alle nostre, se pensiamo che si sono dotati di 17 agenzie di intelligence e starebbero in procinto di creare addirittura la 18ª, quella delle open Sources. Per dimensioni e volumi non esiste una competizione rispetto a quel Paese, però bisogna guardare con attenzione a quello che fanno, perché a mio avviso sono un modello che funziona. Pensate che già dall’Amministrazione Clinton la sicurezza economica è stata ed è assurta a priorità dell’intelligence ed è stato costituito il NEC (National Economic Council) che è una struttura evidentemente gemella del National Security Council, ma dedicata esclusivamente a temi di carattere economico. Per quanto riguarda la visione del Giappone, è un modello che funziona molto bene. Rientra anche in quella che è la psicologia e la formazione del giapponese, che ha una visione molto collettiva e molto condivisa della cosa pubblica. Loro si avvicinano a questo tema con una dimensione totale.
Un modello che a me piace molto è quello francese, che nasce bottom up. Nasce da un gruppo di accademici le cui teorie hanno man mano contaminato le strutture pubbliche e le aziende private. Oggi, in Francia, le attività di targeting economico e finanziario sono responsabilità del Ministero dell’economia, dell’industria e del digitale. È una particolarità della Francia. In Francia c’è una scuola, che io cito sempre, che è l’Ecole de guerre economique, che la dice lunga su quello che è il pensiero di questo Paese in tema di intelligence. Tutti i paesi al mondo, tutte le forze armate hanno una loro scuola di guerra in ambito delle forze armate, ma nessun altro Paese ha quello che ha la Francia. Le scuole economiche che la Francia ha costituito sono addirittura del lontano 1997. Le scuole economiche sono un nodo cruciale per quel sistema-Paese, poiché hanno trasformato progressivamente uno strumento di protezione degli interessi nazionali in una capacità di promozione e di proiezione di influenza, quindi un esercizio di potere, anche a livello globale. È una dimostrazione del valore che i francesi riconducono all’intelligence economica. Il modo con cui trattano questa materia, ho già avuto modo di dire, non è disarmato.
Con la Francia noi abbiamo un bilancio commerciale molto importante: abbiamo scambi per 103 miliardi di euro. La Francia è il nostro terzo fornitore e reciprocamente noi siamo il terzo fornitore della Francia. Quello che vorrei sottolineare è l’efficacia della penetrazione francese in Italia; fra il 2013 e il 2023, la Francia ha concluso in Italia più di 500 – ripeto, 500 – operazioni di marketing su aziende italiane, per un valore complessivo pari a più di 400 miliardi di euro. Sono tutti investimenti mirati, oculati ed hanno riguardato specifici cluster imprenditoriali dell’economia del nostro Paese, come per esempio le regioni tradizionalmente più dinamiche sotto il profilo economico. Penso all’Emilia, al Veneto e alla Lombardia. Sono acquisizioni fatte nel settore farmaceutico – per esempio, la maggioranza di Big Pharma – nel settore bancario: penso all’assorbimento di Creval da parte di Crédit Agricole; penso a Cariparma e alle operazioni che nel 2020 hanno subito una battuta d’arresto perché il mondo, e anche la Francia, era altrimenti funestato dall’emergenza sanitaria, ma che sono ripartite nel 2021 in maniera significativa.
Tra queste, mi viene in mente l’operazione di Vivendi che aveva acquisito il 21% di Telecom Italia, con qualcosa come 3,3 miliardi di euro e il 28,8% di Mediaset.
E ancora il settore del lusso, nel quale l’Italia al pari della Francia è un’eccellenza, ma che ha rappresentato un target di particolare interesse per i francesi. Tutto questo non è chiaramente estraneo al discorso che stiamo facendo, perché non sono interventi casuali. Io ho citato i più eclatanti, ma ci sono centinaia di casi di piccole acquisizioni e non solo dai piccoli operatori francesi che, attirati dal clima più favorevole, meteorologicamente parlando, del nostro Paese hanno deciso di venire a “svernare” in Italia. No, risponde tutto a una strategia, orientata ad acquisire in maniera informata. Qui ci sta tutto il concetto di Intelligence economica: acquisire quelli che sono i pezzi pregiati dell’economia italiana, un tema questo assolutamente non estraneo a quello di cui stiamo discutendo.
Passiamo al lato che chiamiamo offensivo, ma che mi piace più chiamare il lato “proattivo” dell’intelligence economica. È possibile, quando noi ci poniamo su questo piano, evidenziare una serie di criticità per le nostre imprese che operano sui mercati esteri. Tra queste criticità, quali sono quelle che assumono maggior rilievo? Intanto l’esistenza di uno scenario internazionale, contraddistinto da una sempre più aggressiva, talvolta anche violenta, competizione fra aziende, con l’emergere di nuovi player, spesso supportati in maniera proattiva dai loro rispettivi governi. Pensiamo alla Cina e al lungimirante progetto della Via della Seta. Un progetto che nasce nel 2017 e che ha una prospettiva assolutamente impensabile alle nostre latitudini, riconducibile solo a un Paese come la Cina, che coniuga due filosofie, cioè la filosofia confuciana e quella comunista. Di fatto, si presenta sul mercato come un sistema non esattamente democratico, che consente al Governo cinese – dovrei dire “regime”, ma insomma un Governo particolarmente assertivo – di pianificare le proprie attività da ora ai prossimi cinquant’anni. Questo progetto, sul quale la Cina ha investito circa un migliaio di miliardi nel tempo, gli consente di rendersi aggressivamente competitiva negli scenari internazionali, da qui ai decenni a venire. Naturalmente tutto questo non può prescindere da un ruolo incisivo degli organi di intelligence. È una presenza, questa, che porta anche all’alterazione non corretta di quello che è il principio di concorrenza, a discapito delle aziende nazionali che non sono parimenti supportate dallo Stato.
Cosa è necessario per un Paese? È necessario capire e possibilmente anticipare in modo verosimile queste dinamiche e queste prassi. Un rilievo particolare assume la capacità di acquisire informazioni sui nostri competitor e su quelle che sono le azioni di interferenza dei governi stranieri sulle azioni di lobbing. Sotto questo profilo sono estremamente connaturate le azioni offensive, anche di disinformazione e denigrazione, che talune Intelligence vanno svolgendo nei confronti di soggetti economici, che si trovano di conseguenza a competere con realtà assistite da un tale strumento. Il tema non è da sottovalutare, perché il profilo dell’intelligence è sempre più offensivo, secondo una scala variabile che dipende dai Paesi che le esprimono.
In questo processo di internalizzazione è necessario un metodo proattivo maggiore che possa assisterlo. Anche il nostro tessuto produttivo è una realtà assolutamente competitiva; una realtà con delle grandissime eccellenze, che hanno delle possibilità di proiezione all’estero sia in termini di interscambio commerciale sia in termini di investimenti diretti. Per assistere e supportare questo processo di internazionalizzazione, è necessario avere la capacità di penetrare quei mercati che, individuati con una preventiva informazione, abbiano margini di sviluppo maggiori, in quanto magari partono da livelli di benessere inferiori. Qui c’è un fatto demografico e noi non dobbiamo dimenticare che il nostro Paese, come tutto il mondo occidentale, è l’esempio in negativo di questa tendenza. Abbiamo uno sviluppo demografico ormai prossimo quasi all’estinzione, mentre ci sono Paesi – pensiamo a tutta l’area armena, all’India e alla Cina – che hanno invece uno sviluppo demografico che è quattro volte superiore al nostro, quindi sono Paesi rispetto ai quali noi dobbiamo traguardare con lungimiranza. Dobbiamo traguardare con interesse a questi Paesi perché dobbiamo capire dove dobbiamo inserire le nostre aziende, perché le nostre dimensioni non ci consentono, e sempre meno ci consentiranno, di essere competitivi. Noi abbiamo la necessità di accedere a questi mercati con uno sviluppo demografico decisamente superiore al nostro.
Da questo punto di vista, sicuramente l’intelligence economica è in grado di fornire tutti gli elementi necessari. Quali sono? Per fare un po’ di sintesi, le attività a cui l’intelligence economica – nell’accezione che ho più volte sottolineato, non riferibile esclusivamente al comparto propriamente detto, ma a chiunque sia chiamato a concorrere alla raccolta di informazioni – è chiamata a svolgere sono quelle di raccolta, elaborazione e diffusione di informazioni utili agli attori economici. Sono attività che devono essere svolte all’interno di un perimetro giuridico ed etico – ci tengo a sottolinearlo. Coinvolgono un’ampia gamma di competenze e di campi di applicazione, per cui dovremmo a questo punto veramente pensare di elaborare come Paese un modello simile. Mi risulta che si stia facendo, perché la nostra legge 124 è una legge che ormai mostra i segni del tempo trascorso e quindi necessita di qualcosa di più di una manutenzione, necessita di un adeguamento.
Dobbiamo pensare a un progetto per rivedere e rinnovare l’intelligence economica del nostro Paese. Una Intelligence economica che diventi uno strumento di supporto alle decisioni. Personalmente sto seguendo i tre modelli virtuosi che ho citato, ma non disdegnerei l’ipotesi della creazione di una realtà finalizzata proprio all’intelligence economica, con addirittura un’autorità delegata, così come esiste una figura di riferimento, che nel modello statunitense è il NEC. Questo sovrintende l’ampio sistema pubblico e privato, per far sì che la raccolta di intelligence e la raccolta di informazioni venga coordinata, controllata e indirizzata da un’unica entità, che riesca veramente ed efficacemente a mettere a sistema tutte queste componenti, che concorrono alla raccolta di intelligence.
Si è parlato di una necessità di rafforzamento della capacità di collezionare sistematicamente informazioni. Pensavo che occorrono anche figure intermedie di analisti, che devono avere un profilo con conoscenze trasversali in diversi settori, da quello leggero economico a quello industriale. Cosa ne pensa?
Sono totalmente d’accordo con lei, però le dico che è un processo che è già insito nell’attività di intelligence, perché l’intelligence rivolge un’attenzione estremamente attenta e particolare a quella che è l’analisi. Convengo con lei che la raccolta da sola non è utile se non si accompagna a un’attività di analisi. Ma le garantisco che un reparto analisi presso tutte le strutture di Intelligence, non solo italiane ma di tutto il mondo, esiste e si fonda proprio sul fatto che, sostanzialmente, all’interno ci sono figure con competenze trasversali. Non pensate più al vecchio agente 007, oggi l’appartenente all’intelligence è anche un’analista. C’è un ciclo delle informazioni che a 360 gradi raccoglie tutte le competenze. Non c’è solo lo spione degli anni 2000. Non è più quello del passato e viene da tanti mondi e tante competenze, fra queste ci sono tutte quelle che lei ha citato, cioè chi proviene dal mondo militare, anch’esso necessario, chi proviene dal mondo delle nuove tecnologie, chi proviene dal mondo della finanza, chi proviene dal mondo dell’accademia, chi proviene dal mondo dell’università, chi ha cognizioni linguistiche e chi ha conoscenze di carattere classico, perché è necessario assolutamente conoscere quelle che sono le culture dei Paesi con i quali ci andremo a misurare e che spesso sono totalmente distanti dai nostri schemi. Dobbiamo assolutamente conoscerli, se vogliamo cogliere tali contesti nel modo più efficace per il raggiungimento di quelle che sono le finalità che l’intelligence stessa si propone. L’attività di analisi è un’attività assolutamente di rilievo nell’ambito dell’attività di Intelligence economica. In tutte le aziende di una certa dimensione ci sono delle strutture che analizzano le informazioni della cosiddetta “business Intelligence”, che provengono dal mercato e che sono analizzate per capire le tendenze, le esigenze, i rischi e le opportunità. Quindi l’attività di analisi è fondamentale.
Quale attività di intelligence può difendere il know how della difesa italiano tra i Paesi europei? Dato che abbiamo una concorrenza molto forte, ci sono piattaforme comuni che possano essere un volano per il mercato della difesa?
È necessaria una premessa: io ritengo che a livello europeo, più che di competizione nel settore della difesa, dobbiamo parlare di cooperazione, perché nessuno, neanche il Paese economicamente più importante d’Europa, può pensare di porsi sul mercato internazionale in modo competitivo da solo. I 27 Paesi membri dell’Unione avranno una dimensione e una capacità di diventare competitivi solo nel momento in cui riusciranno a fare sistema. Oggi noi abbiamo 27 Paesi, con 27 piattaforme diverse, quindi abbiamo 27 sistemi per porci sul mercato. Non siamo competitivi. Anche per la ricerca e per l’innovazione è necessario assolutamente fare sistema all’interno dei 27 Paesi dell’Unione europea. Io credo che la parola d’ordine debba essere “fare sistema”, che naturalmente significa anche sviluppare ciò che ogni paese e ogni azienda è in grado di fare meglio, di rappresentare un’eccellenza. Una competizione fra noi rischia solo di creare dei danni; il modo migliore è che ciascuno sviluppi gli assi portanti rispetto ai quali è più avanzato rispetto agli altri. Chiaramente, discorso diverso se ci trasformiamo su un piano extraeuropeo. Teniamo presente che gli Stati Uniti da soli investono nella difesa più del doppio di quanto investono tutti i paesi dell’Unione Europea. Anche laddove noi dovessimo raggiungere quel livello del 2% del Pil da investire nella difesa, che alcuni paesi stanno anche superando, non riusciremo ad equiparare la nostra forza. Ci tengo a ripetere che qualifico questa spesa un investimento, non un costo, perché dalla difesa è sempre venuta l’innovazione. Questo ce lo insegna la storia dell’industria. Anche se riuscissimo a creare un sistema che tenga conto di ciò che spendiamo a livello europeo, resterebbe la metà di quello che gli Stati Uniti da soli investono in acquisizioni e in difesa. Nella difesa sono racchiusi dei prodotti di tecnologia avanzata, perché, come sostenevo, l’innovazione è sempre venuta dalla difesa. Il compito, per il quale l’intelligence è più qualificata, è fornire uno scudo protettivo per mettere in sicurezza questa grande ricchezza, il know how, che il nostro Paese ha sviluppato con industrie che in questo momento rappresentano l’eccellenza, non solo a livello europeo, ma mondiale.
Per creare ambienti di intelligence economica efficaci e funzionanti occorre la libertà strategica, che forse attualmente l’Italia non ha. Potremmo, per ipotesi, fare liberamente accordi con la Cina o avere rapporti reciproci con la Russia, se l’intelligence economica lo suggerisse?
La risposta è molto sintetica e forse anche semplice. Dal mio punto di vista, le regole dell’intelligence sono diverse da quelle che governano le dinamiche generali in un Paese. Quando due Paesi non si parlano, è maggiore la necessità che le intelligence dei due Paesi comunichino. Da questo punto di vista non c’è un tema di mancanza di dipendenza. Esistono delle regole funzionanti, questo è certo. Nessuno è legibus solutus e men che meno esiste, se non nella fantasia cinematografica, l’agente 007 con licenza di uccidere. Pur tuttavia, ci sono sicuramente degli spazi che sono maggiori rispetto a quelli che sottendono i rapporti fra Paesi, per cui quando due Paesi non si parlano a maggior ragione c’è l’esigenza che le reciproche intelligenze si parlino. Non voglio citare il caso italiano, perché non potrei, ma probabilmente tutti quanti avrete visto una bellissima serie cinematografica, che rappresenta due Paesi che sono in guerra ormai da tempo, i palestinesi e gli israeliani. Se vedrete questa bellissima serie, che fra l’altro è molto verosimile, capirete come c’è un dialogo continuo fra l’intelligence palestinese e l’intelligence israeliana.
Come immagina un’intelligence economica che davvero potrebbe fare la differenza nel nostro Paese? Quale potrebbe essere il ruolo dello Stato e quale il ruolo delle aziende private?
Per come lo immagino io, suggerisco un sistema che metta insieme quelli che sono gli attori protagonisti della raccolta di informazione, che non è da circoscrivere esclusivamente al comparto intelligence, e l’analisi. I soggetti principali sono senza dubbio le due Agenzie di intelligence deputate alla raccolta informativa, ma sona anche i grandi player a livello economico, come Leonardo o come ENI. Pensiamo a come quest’ultima azienda sia anche espressione di una influenza italiana all’estero, perché con la sua grandezza e le sue capacità riesce veramente a essere un attore importante a livello internazionale. Pensiamo a grandi scoperte come il bacino di Zohr in Egitto, dove i francesi non erano riusciti a trovare quel grande giacimento che invece l’azienda italiana ha individuato. Esiste ancora la necessità di dotarsi di professionalità che devono essere attinte variamente. Molte di queste devono provenire da mondi che sono molto lontani da quello dell’intelligence; mi riferisco all’operatore bancario, al giovane brillante – questo è un invito che rivolgo ai frequentatori del master – allo studioso proveniente dalla City londinese, dove ha affinato le proprie capacità e conoscenze. Per me l’intelligence è riuscire a mettere a sistema tutte queste grandi potenzialità che il nostro paese possiede. Non siamo assolutamente secondi a nessuno. Per mettere a sistema però è necessario anche avere chi lo faccia; il CT della Nazionale di calcio è quello che deve individuare, tra le squadre di calcio, quelli che meglio possono rappresentare il Paese e quelli che possono meglio combinarsi, perché non necessariamente a volte sono i migliori, ma sono quelli che meglio si integrano l’un con l’altro. Quindi, io penso ad un grande CT dell’intelligence economica che convogli quelle personalità che possono meglio fra loro combinarsi e rappresentare gli interessi del Paese. È un’ipotesi a cui pensare per creare una struttura con un proprio commissario tecnico ad esso dedicato.
Estratto della lectio di Luciano Carta, Presidente LEONARDO – Master IASSP In Intelligence economica 2023
A cura di: Andrea Maneghel
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