28
Mar
In Occidente il concetto di strategia è diventato un ossimoro. Qualcosa di assurdo, di impossibile. Proviamo dunque a chiederci cosa è successo e perché. Partiamo dal fine, dalle finalità, che sono a dispetto del nome il primo elemento. La mia tesi è che abbiamo perso l’idea di futuro. Anche questo può apparire paradossale a prima vista, perché mai come oggi siamo bersagliati da scenari futurologici. Beviamo quotidianamente l’ideologia del superamento dei limiti; questa apparente apertura, però, si combina con un singolare abbandono della speranza. Un amico diceva: all’altezza del secondo Dopoguerra non avevamo nulla eccetto la speranza; oggi abbiamo tutto fuorché la speranza.
Pensate a quanti deterioramenti stiamo vedendo intorno a noi. Percepiamo – parafrasando un titolo di Ottiero Ottieri – una irata sensazione di peggioramento; questa sensazione perdura e si accentua, ma all’ira è subentrata la rassegnazione. Si avverte che qualcosa non sta funzionando nella nostra società, ma non sappiamo come aggiustarla. Tutto sembra fatale e inesorabile. Interessante notare che non è stato sempre così.
Nell’Ottocento era la filosofia di Hegel a dare lume a tutta la metafisica come era stata concepita in Occidente per secoli. Si pensava – oggi oseremmo dire ingenuamente – che la realizzazione della razionalità fosse lo stato prussiano e il mantenimento del sistema hegeliano, poi ci si accorse che la prassi storica non aveva ancora mantenuto la propria promessa: taluni autori hanno cominciato a cambiare il punto di vista e orientarsi sulla fattività: terminato il tempo in cui si pensa alla razionalità, occorre realizzarla storicamente attraverso la prassi sociale trasformativa. Già per Fichte e per Hegel, “strategia” è una parola densa di significati, perché il futuro è apertura, è luogo di possibilità reali di trasformazione in conformità alla ragione. Al di là delle differenze fra le prospettive, c’è l’idea di un futuro plasmabile dal soggetto.
La mia tesi è che quest’idea abbia animato l’Occidente per un secolo e mezzo circa, fino alla caduta del muro di Berlino. In questi anni abbiamo visto strategie molto diverse tra loro, così come diversi sono stati i modelli di società proposti, quindi anche le finalità concrete dell’azione e i mezzi adoperati. Se ci avviciniamo ai nostri tempi, vediamo che il secondo Dopoguerra fu percorso dalla speranza, che è l’alimento del pensiero strategico, ma avvicinandosi agli anni ’90, attraverso i ’60 e gli ’80, è andata progressivamente perdendosi la capacità creativa e la lungimiranza si è spenta. Ci siamo piegati su noi stessi e abbiamo pensato di amministrare l’esistente invece di pensarlo come mutabile. Un esempio che ricordo molto bene è rappresentato dalle parole di Mario Draghi, quando diceva che l’Italia ha inserito il “pilota automatico”. Una affermazione che cercava di essere rassicurante, poiché in un qualche modo garantiva che le decisioni politiche non avrebbero potuto condurre le economie al di fuori di certi binari di stabilità prefissati, ma che inquieta profondamente: siamo in balia della corrente del mercato e gli interventi istituzionali che potremmo mettere in opera non avranno effetto. È la morte della politica.
Mi sembra, insomma, che la perdita del futuro sia correlata alla scomparsa della strategia. Non a caso, uno dei libri più fortunati e venduti dei primi anni ‘90 fu il testo di Francis Fukuyama, La fine della storia. La tesi sostenuta da questo libro è che il futuro del mondo sia “il trionfo delle democrazie liberali basate sui consumi”. Non ci sono barbari alle porte – un capitolo si intitola proprio così – e non ci possono essere orizzonti possibili di mutamento rispetto alla suddetta configurazione sociale. Mi sembra una prospettiva storica, a seconda dei punti di vista, esaltante o un po’ noiosa.
A partire dalla metà degli anni 90’, si affermano nuovi fenomeni concomitanti: la globalizzazione, le privatizzazioni, che sono considerate, soprattutto per alcuni Paesi come il nostro, essenziali per il rilancio dell’economia, e la contemporanea eliminazione di alcuni freni alla finanza speculativa. Tutto insieme, cosa significa? Che la costruzione del futuro è abbandonata e demandata alle dinamiche di mercato. Rispetto a questa impostazione, ci sono due critiche che vengono mosse: la prima è che, ovviamente, abbandonare il pensiero critico sul nostro futuro presenta delle conseguenze indesiderate; la seconda, pragmatica, farebbe osservare che, alla fine, in tutta questa agitazione delle forze di mercato, è lo Stato a dover raccogliere i cocci, quando le cose non vanno bene. Di fatto, la crisi del 2008 è stata superata perché lo Stato ha salvato il sistema dalle sue spontanee derive, socializzando le perdite in misura consistente.
Io credo che queste obiezioni siano tutte corrette, ma nessuna coglie il punto dirimente, che ora espongo. La pretesa di attribuire al mercato il compito di costruire il futuro delle società è logicamente incoerente e assurda per un motivo molto semplice: il mercato non è un soggetto, ma un luogo e, più precisamente, un luogo dove gli attori privati cercano di realizzare il proprio profitto, scambiando merci, titoli, servizi e informazioni sempre in una ottica personale. Aspettarsi che da questo incontro casuale di interessi debba per forza derivare il perseguimento di politiche etiche per il bene futuro della società umana è qualcosa più che credulità, è pura superstizione.
Estratto della lectio di Vladimiro Giacchè (direttore comunicazione, Studi e innovazione digitale Banca del Fucino), Master In Intelligence economica. IASSP 2023 – Docente dell’Istituto
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03Oct
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