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Feb
La globalizzazione c’è sempre stata, nella storia semmai è cambiata l’idea di cosa sia globale. Nell’epoca contemporanea la globalizzazione è veramente tale, in quanto investe tutto il globo, almeno a partire dalla fine dell’Unione Sovietica. In questa stagione, che tuttora stiamo vivendo, siamo soliti raccontare che le differenze sono in crescita; in realtà sta succedendo l’esatto opposto: sono in diminuzione. Sono aumentate limitatamente all’Occidente, ma sono diminuite nel mondo. Siamo passati da un miliardo e novecento milioni di abitanti in condizioni di povertà estrema a settecento milioni, che sono ancora troppi ma molti meno del dato precedente. La globalizzazione comporta una enorme differenza nella possibilità di circolazione del commercio, della produzione ed esportazione, nonché nella condivisione della tecnologia. Popoli che un tempo non avrebbero potuto permettersi il “lusso” della tecnologia, oggi sono diventati produttori. Per inciso, i settecento milioni di poveri sopra menzionati sono quasi tutti allocati in zone di guerra, dove cioè la globalizzazione non è ancora riuscita a produrre i propri effetti positivi.
La dislocazione (offshore) – altro elemento caratterizzante della contemporaneità globalizzata – ha prodotto effetti diversi a seconda della parte del mondo in cui si è sviluppata. Vediamo un caso particolare. La violazione del copyright ha colpito in maniera asimmetrica aziende la cui catena produttiva si è radicata verso l’oriente, dove si sono riscontrati danni maggiori, rispetto a quelle che hanno preso altre direzioni. In Cina si è registrato un effetto disastroso, anche perché sono stati commessi – diciamolo – gravi errori di gestione. Abbiamo imparato che, a parte le guerre e i problemi di collaborazione con i propri mercati, occorre cercare di capire come stanno effettivamente le cose in una determinata area.
A nessuno ha mai fatto male nella vita studiare. Ho lavorato molto in collaborazione con la Cina e mi sono spesso chiesto come si facesse a mettere piede da quelle parti senza aver letto le cose già per sé trasparenti che Kissinger aveva scritto. La convenienza economica è fondamentale, altrimenti non ci sarebbero ragioni per dislocare, però non è esaustiva. Deve essere compreso anche il rischio che una simile scelta comporta; un discorso che specialmente le piccole e medie imprese tendono ad affrontare con più impeto che non strategia. Conoscere l’interlocutore mi permette di capire quali sistemi di protezione posso adottare. È noto che il sistema diplomatico francese è molto predisposto per gli affari, per cui un imprenditore francese che si muove nel mondo, se non trova la sede diplomatica mal presidiata, ha ovunque un avamposto di informazione. Per quanto è necessario alla protezione, non è detto che un imprenditore italiano si trovi nella stessa condizione. Dipende naturalmente molto da chi è il rappresentante diplomatico, ma nelle linee generalissime la nostra rete diplomatica è meno predisposta agli affari di quella di altri Paesi. Esistono, per esempio, accordi di collaborazione con diversi Stati che non sempre sono conosciuti dai nostri imprenditori; questo è un elemento di svantaggio.
Racconto un episodio realmente accaduto per esemplificare questo spirito solitario e un po’ garibaldino. C’era un’azienda che costruiva macchine per denocciolare la frutta sciroppata. I cinesi, per inciso, hanno molta frutta che proviene dal sud, ma non possedevano le macchine per denocciolarla. L’azienda pensò di essere più furba delle altre e non pagò nessun garante, nessuna assicurazione. Il risultato, naturalmente, è che in tempo cronometrico gli hanno copiato la macchina, producendola poi per conto proprio. Quando venne a sapere ciò che era avvenuto non poté farci nulla. Ma ci sono anche casi con esiti completamente diversi, a seconda del metodo scelto per dare corso all’impresa. Un’altra azienda, un po’ più a nord della precedente, aveva inventato un apparecchio per applicare l’etichetta ai prodotti senza uso di colla. Nel contratto firmato con la controparte cinese mise per iscritto la cessione del brevetto. Osservai che la cessione del brevetto non mi sembrava una clausola vantaggiosa, perché le manifatture locali avrebbero potuto in breve riprodurre legittimamente la macchina, ma l’imprenditore mi rispose: chi se ne importa! Nel tempo che loro impiegheranno per capire come far funzionare la macchina io disporrò già di una versione migliore della stessa con la quale mantenere il vantaggio competitivo. In questo caso la conoscenza della propria macchina ha giocato la differenza.
Tutto questo ci fa capire che non esiste una ricetta buona per tutti i casi o un elenco prestabilito di soluzioni. A fare la vera differenza è la conoscenza del proprio prodotto, del mercato e del territorio su cui esportare la propria fabbrica, specialmente quando si ha a che fare con Stati che non presentano un sistema di diritto simile al nostro e dove rivolgersi a un tribunale potrebbe non essere l’opzione risolutiva e nemmeno una strada considerabile.
Estratto dell’interveno di Davide Giacalone, saggista politico e scrittore, del seminario del master in Intelligence Economica del 21 gennaio
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03Oct
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