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Feb
Oggi si parla molto di leader e leadership. Pare che tutti debbano esserlo o condannarsi all’irrilevanza. Non è così, anzi molto spesso è il leader a trovarsi in una condizione di difficoltà in cui rischia o di venire assorbito dalle strutture di cui si è circondato o di sfracellare la propria reputazione insieme con il progetto. Facciamo un passo indietro. Chi è il leader? Il leader per definizione è meglio degli altri: inutile girarci attorno. Se in un consesso o a una festa voi date uno sguardo intorno e vedete che in una parte della sala si accende una luce, lì c’è un leader. Quando parla non lo fa solo per uno scambio di opinioni, ma raccoglie attorno a sé quelli che arrancano, cercando di alzare il livello dell’asticella. Proprio per questo il leader è per definizione un maledetto narcisista: una grande dote, senza la quale non potrebbe intercettare le speranze altrui, ma al contempo un severo limite, che porterà gli altri a cercare di condizionarlo e spezzargli le gambe.
Cosa deve fare il leader a quel punto? O fa la scelta di proseguire nel suo cammino da solo, infischiandosene del resto, oppure cerca una mediazione con i consessi di riferimento. Nel primo caso va a sbattere, prima o poi. Tuttavia, il leader è molto tentato di prendere questa strada quando è totalmente innamorato di se stesso: è meraviglioso trovarsi di fronte folle plaudenti, persone che ti adorano, che ti adulano, ma ciò porta al risvolto inquietante dell’auto-avvitamento, della convinzione di bastare a se stessi. Dall’altro lato, ogni leadership viene – per così dire – tenuta a bada da un consesso di altre persone che, insieme al leader, governano le strategie del gruppo. Il difetto di questa struttura è che, naturalmente, ognuno cerca di fare le scarpe al leader, sostituire le proprie opinioni all’indirizzo comune. A pensarci è molto umano, perché ognuno ha il desiderio di esprimere il proprio parere ed edificarsi una preminenza; quando questo fenomeno è condotto all’eccesso accade che, invece di aiutare il leader, la sua squadra gli rema contro e gli pone ostacoli, fino a trascinarlo nelle proprie discordie.
Questo avveniva già alla crisi della Prima Repubblica, che era appunto fondata su strutture di partito piuttosto significative e pesanti, in cui c’era un certo equilibrio tra leadership e regia collettiva. Terminata quella fase, il leader si è trovato solo di fronte alle battaglie verso l’esterno ma anche contrastato all’interno. Servirebbe ai nostri giorni una squadra capace di lottare al fianco del leader ma senza porsi in diretta o velata contrapposizione con esso. Nel mondo anglosassone gli staff intorno ai politici-leader esistevano da tempo; chi ha tentato di introdurli in Italia è entrato in rotta di collisione con gli apparati ufficiali e i mini-potentati.
Vedo piuttosto immune dalla prima problematica Giorgia Meloni, perché Giorgia Meloni è donna. Mentre i maschi sono infinitamente più suscettibili alla pecca del narcisismo, le donne lo sono molto meno. I maschi sono la metà dell’universo “in caduta libera” e allora si aggrappano più agevolmente a queste manifestazioni estreme; le donne sono più solide, perché reggono il mondo e sono in netta ascesa. Questo è il motivo per cui forse (sottolineo “forse”) Giorgia Meloni riuscirà a evitare il rischio della leadership individuale personale, che poi a un certo punto diventa ingestibile. Resta tuttavia esposta all’altra minaccia, farsi irretire dalle dinamiche del partito, che cominceranno a condizionarla pesantemente. Il limite non verrà né dall’opposizione, né dalla maggioranza, ma dai conflitti interni che la faranno venir meno al profilo consolidato a cui si è abituata, per mantenere l’ordine fra i suoi. A quel punto la sua leadership progressivamente, presumo, si indebolirà.
C’è una terza strada per la leadership, ossia la condivisione di quello che potremmo chiamare “potere” o “primato”. Nemmeno questa è priva di qualche difetto, in particolare legato alla dispersione della capacità di individuare il punto di riferimento, la stella polare. È giusto condividere ed essere empatici, bene inteso, il leader non compie progressi senza condividere, però il processo di distribuzione degli incarichi deve essere tenuto sotto controllo.
Finora si è descritta la qualità del leader come se fosse un’aura, una luce unica che invade lo spazio. C’è un’altra considerazione che deve essere esposta: collegare la leadership al merito. Lincoln riusciva a tenerle insieme con una frase icastica: si possono ingannare molte persone per pochi giorni o un piccolo manipolo per molto tempo, ma non si possono ingannare tutti per sempre. Cosa vuol dire? Significa che la leadership vuota di contenuti non esiste. Non esiste, perché non può durare; ci sono le stelle che brillano per un momento e poi spariscono, ma non è la forma di leadership che lascia una traccia dietro di sé. Vediamo tanti nascere e perire così. Quando invece la leadership si accompagna al merito, le cose prendono una piega decisamente favorevole. Il merito è imprescindibile.
Estratto dell’intervento di Claudio Velardi, giornalista e saggista, al seminario del Master Iassp in Intelligence Economica del 21 gennaio
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03Oct
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