19
Jan
Le coordinate entro le quali ci muoviamo – meglio ci agitiamo – nello scenario attuale mi riportano alla mente un acronimo mutuato dal lessico delle accademie militari e utilizzato dagli specialisti di strategia americani alla fine degli anni ’90: VUCA, dove la “V” sta per volatility o vulnerability (volatilità o vulnerabilità); la “U” per uncertainty (incertezza); la “C” per complexity (complessità); la “A”, infine, per ambiguity (ambiguità). Quest’ultimo è forse il perno, il punto caratterizzante del contesto internazionale.
Nel momento dell’euforia per l’implosione dell’Unione Sovietica, nel 1991, ci si è presi la libertà di affermare che il mondo sarebbe divenuto unipolare, piatto, giunto alla fine della storia. In realtà, questo mondo apparentemente globalizzato negli ultimi trent’anni si è rivelato decisamente multipolare. Gli Stati Uniti continuano a resistere all’evoluzione multipolare del pianeta, nonostante abbiano commesso delle ingenuità con i fenomeni legati all’offshoring, che ora cercano di correggere precipitosamente attraverso il reshoring o il friendly shoring. Si sono illusi che l’Estremo Oriente, e la Cina in particolare, diventasse la fabbrica del mondo per i prodotti a bassa tecnologia; l’attrazione era data dal basso costo della manodopera, dalle forme di dumping fiscale, dalla legislazione ambientale e così via. Viceversa, la Cina ha sviluppato pratiche di acquisizione e di attuazione della tecnologia. Così, con l’emergere del progetto sulla Belt and Road Initiative e la guerra dei semiconduttori che passa attraverso Taiwan – sempre per effetto di avventati processi di delocalizzazione – si può dire che i calcoli della globalizzazione unipolare si sono infranti davanti a una realtà che ha segnato la rivincita della geopolitica. Il multipolarismo sembra inarrestabile.
In tutto questo, come si muove l’Unione Europea? Il sogno europeo si sta trasformando in un incubo: l’ideale kantiano, ahinoi, una volta di più ha dovuto cedere il passo alla visione hobbesiana dell’aggressività generalizzata. L’UE poggiava sul cosiddetto motore o asse franco-tedesco, radicato in due Paesi in fondo molto diversi tra loro. Da un lato la Francia, dirigista e cartesiana, molto consapevole della Realpolitik. Non a caso dispone addirittura di una scuola di guerra economica. Una Francia che, però, non ha espresso nel recente periodo presidenze molto forti, finendo per mancare – ad oggi – quel salto di qualità che vasti settori dell’opinione pubblica francese richiederebbero e che risulta chiaramente spiazzata rispetto alle nuove variabili dello scontro di potere. La Germania, dal canto suo, è sempre stata in qualche modo guidata da quella che io definisco la sindrome della grande Svizzera: intendo con ciò un mercantilismo accentuato, poggiante su produzioni di altissima qualità industriale, non solo nel settore dell’automotive.
Questa nuova guerra europea rischia di portarci a un suicidio – per usare una macabra metafora – e la Germania se ne rende conto. Con essa, quale paese guida, che ci piaccia o no, è in crisi anche il nostro sistema produttivo industriale-manifatturiero, ormai concentrato sulla componentistica. Abbiamo visto anche recentemente il caso della visita del cancelliere Schultz a Pechino, che ha voluto significare qualcosa di molto evidente: era un messaggio rivolto non solo ai cinesi, ma anche agli americani. Se sulla guerra fra Russia e Ucraina tutto sommato la Germania ha ottemperato, sia pure con molte resistenze, soprattutto sull’inclusione del gas tra le materie prime da sanzionare, con il prossimo conflitto economico le cose potrebbero andare diversamente.
Il multilateralismo è qualcosa di positivo se si sa giocare la partita multilaterale al di fuori di una visione pigra e ottimistica di esso. L’atteggiamento passivo rischia di trasformarsi in una esportazione di responsabilità e in una importazione di influenze esterne molto spesso interessate. Qualcuno definisce la Realpolitik la “politica del reale”, non limitata ai valori e ai principi ma comprensiva degli interessi e soprattutto della storia. In Italia, coloro che si apprestano ad operare come professionisti nel campo dell’Intelligence debbono necessariamente essere attenti alle dinamiche internazionali, che sono – come abbiamo detto – complesse, incerte, ambigue. Ferma restando l’importanza dei quadri internazionali, queste cornici non si risolvono in un paniere di scorciatoie.
Non basta conoscere, è importante capire. Occorre tenere presente la distinzione tra valori proclamati e interessi concreti; diffidare di scelte e analisi costruite su impianti ideologici – come per esempio quello della lotta delle “democrazie” contro le “autocrazie”. Queste definizioni perentorie tendono a sorvolare sull’esistenza di tradizioni, situazioni e pratiche storiche che si sono andate consolidando, sia pure con una forte evoluzione del recente periodo: la Cina, per esempio, risponde alla propria storia, oltre ad avere una visione del futuro, come l’India risponde a una propria storia e ugualmente la Turchia. A fianco, ci sono interessi estremamente mutevoli, al tempo stesso ricchi e fragili.
Sergio Vento, Già Ambasciatore Nazioni Unite New York, Washington, Belgrado, Parigi e già Consigliere Diplomatico della Presidenza del Consiglio, Docente IASSP
Sintesi dell’intervento della lezione del 17 dicembre 2022 al Master in Intelligence economica IASSP
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