10
Jan
Qualcuno pensa che la presenza dell’uomo nell’era che stiamo vivendo, definita appunto Antropocene, sia un dato negativo, per via di tutti i danni all’ambiente che questo arreca. Le cose si possono e si dovrebbero raccontare meglio, a partire dalla immagine che abbiamo dei prossimi sviluppi, a cui sono solito guardare con ottimismo. Secondo la modesta previsione di chi scrive, gli elementi per capire come si stanno modellando gli scenari del futuro sono già presenti in mezzo a noi, soltanto è difficile individuarli; un modo di dire americano afferma infatti che non si può vedere la foresta se si guardano gli alberi.
Quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario del libro I limiti alla crescita, una pubblicazione del Club di Roma che ha avuto un grandissimo successo. Si tratta di una simulazione dei futuri possibili per rispondere alla domanda: siamo sicuri che possiamo sostenere l’attuale modello di sviluppo? Il risultato indica che lasciando le cose come stanno (business as usual) si incorrerà in una catastrofe. Nessuno si interessò più di tanto a questo modello, perché allora tutto andava bene, ma oggi il problema della sostenibilità comincia a farsi sentire. Nel caso migliore, si riuscirà in qualche modo a passare il punto di rottura e la popolazione rimarrà stabile trovando nuovi equilibri fra risorse, cibo e crescita demografica (stabile world); un’altra proiezione prefigura un sistema nel quale nuove tecnologie riusciranno a superare gli attuali limiti industriali al prezzo di un lieve calo del numero di abitanti sul nostro Pianeta (compliance technology). A che punto siamo? Dove siamo diretti? Proviamo a guardarci intorno.
Stiamo attraversando un secolo che potrei definire meraviglioso per l’esorbitante velocità del cambiamento che arriveremo a compiere. Calcolati in rapporto all’avanzamento tecnologico del ‘900, questo secolo dovrebbe sperimentare non cento anni, ma ventimila anni di progresso, in quanto la curva tecnologica segue un andamento esponenziale. Il ritmo è riassunto da una parola coniata dall’architetto, matematico e poeta, Buckminster Fuller: efemeralizzazione. Si tratta del principio che prevede di “fare sempre più con sempre meno”. Meno cosa? Meno spazio, meno tempo, meno energia, meno materia. Questo è il trend che segue l’innovazione e lo vediamo facilmente dalla compressione e quasi smaterializzazione degli oggetti tecnologici dagli anni ’70 e ’80. Le azioni – quali videoconferenze, GPS, telecamera da 5 milioni di pixel – per cui un tempo non lontano era richiesto un investimento di circa un milione di dollari in attrezzature, oggi sono riassunte in uno smartphone da 350 €. Questo non può non avere ripercussioni su tutto il globo.
Tutto il mondo sta cambiando con la creazione di un nuovo ecosistema digitale: l’internet delle cose (internet of things). La possibilità di digitalizzare ogni cosa, e creare per ognuna di esse una replica digitale, è fondamentale per avere una migliore cognizione del mondo reale: quello che possiamo chiamare il gemello digitale di una cosa ne conserva la memoria oggettiva e ne monitora il presente, cosicché si ha la capacità di fare dei ragionamenti sul futuro e, in un qualche modo, anticiparlo. Un presente “amplificato” sarà la base per il cambio dei modelli economici, da una economia di possesso e produzione a una focalizzata sull’utilizzo e sui servizi. Non è pensabile, per esempio, che esistano tante automobili quante sono le persone, soprattutto considerando che per il 96% in media del tempo questo bene rimane inutilizzato. Avendo a disposizione i gemelli digitali di tutte le cose, queste possono essere monitorate e controllate, senza i rischi e le difficoltà pratiche in cui saremmo occorsi prima di questa svolta.
Popper parlava del mondo uno, mondo due e mondo tre; questo è un mondo quattro. È un nuovo mondo su cui i filosofi si stanno interrogando, una realtà in cui enti fisici e virtuali sono continuamente in interazione. Riassumendo, possiamo dire che di tratta di ottenere contemporaneamente uno spazio virtuale fisicamente persistente e una realtà fisica virtualmente amplificata. Dentro questa nuova cornice si può pensare di superare veramente quelli che erano i limiti alla crescita del modello industriale degli anni ’70, per passare a un nuovo modello di produzione digitale che sia effettivamente sostenibile?
La maggior parte delle imprese pensa che la trasformazione sia una accelerazione dello stesso modo di fare le cose che c’era prima. La transizione digitale, per definizione, è come la trasformazione di un bruco in farfalla, dove cambia tutto: è ciò che oggi ci permette di passare da quella che nel dibattito viene chiamata industria 4.0 alla industria 5.0, dietro le cui tecnologie ci sono nuovi modelli di profitto. Non ci sarà una decrescita, che a dispetto di quanto molti insegnano non è mai “felice”, ma nuovi modi per fare profitto. Il sogno della trasformazione digitale è quello che tutti i tre soggetti dell’economia siano in grado di vincere: società ambiente e aziende.
Roberto Siagri. Fisico e imprenditore. Sintesi dell’intervento della lezione del 16 dicembre 2022 al Master in Intelligence economica IASSP
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