15
Sep
L’intelligence è un elemento essenziale per la difesa dell’interesse nazionale. Serve a proteggere i sistemi produttivi e i vantaggi comparativi di ogni singolo Paese o area commerciale. L’intelligence delle strutture produttive è congiunta alla stabilizzazione del vantaggio comparato, alla protezione dei mercati finali dei prodotti-chiave della formula produttiva di un Paese, alla diminuzione dei costi politici, culturali, sociali della gestione dei mercati finali, infine alla creazione di una dipendenza strutturale tra i cicli economici del Paese-bersaglio rispetto al Paese con maggiori vantaggi comparati.
Oggi i sistemi produttivi sono sparsi e non possono essere identificati con un solo Paese: l’economia si è gradualmente dematerializzata, il flusso delle informazioni strategiche è ormai globale, la produzione dei beni si va trasferendo nei Paesi “terzi” o dell’area asiatica ed è maggiore il peso delle stime finanziarie sulle scelte economiche. Siamo di fatto passati da una intelligence economica in atteggiamento di difesa ad un economic warfare di attacco. Pertanto, non si tratta più di proteggere un mercato o un vantaggio comparativo, ormai scopo pressoché irrealizzabile nel sistema globalizzato, ma di persuadere. Economic warfare è gestione delle percezioni.
Si è ormai assottigliata la differenza tra infowar economica e psywar geopolitica, tra guerra economica e conflitto militare. Le guerre si vincono creando nuovi consumi, modi di vita, paradigmi di comportamento e di comunicazione politica vicini agli interessi del proprio Paese. Esiste un nation branding offensivo, che abbatte la credibilità dei mercati di determinato Paese e restringe l’appeal globale dei suoi prodotti a maggior vantaggio comparativo. L’Italia è uno dei paesi occidentali che ha avuto il massimo livello di defamation del proprio sistema intelligence.
Dopo oltre dieci anni è quindi il momento di registrare tempi e risultati, con i limiti e i pregi della riforma dell’intelligence italiana avvenuta nell’agosto 2007, con tutte le successive aggiunte e modificazioni. Si tratta di rivalutare gli effetti di un’apertura post-riforma del sistema intelligence nei confronti della società civile, apertura che si è manifestata nella nomina dei due esperti di comunicazione che si sono susseguiti all’interno del DIS (Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza) per occuparsi del rapporto tra l’intero sistema intelligence e il mondo esterno, ovvero i mass media e la società, compresa l’idea dell’allora autorità delegata ai Servizi, il Sen. Minniti, di fare il roadshow nelle università.
Sono meccanismi di rapporto con il mondo esterno estremamente interessanti, sul piano sia della conoscenza che del reclutamento. Questi elementi, certamente positivi, vanno però a coprire un deficit di conoscenza e una strategia della diffamazione che è presente in tutto l’arco della Storia italiana, a partire dagli anni ’60 fino a oggi, relative al rapporto tra intelligence, classe politica e soprattutto pubblica opinione.
Certo, all’epoca i motivi del rapporto tra classe politica al Governo (quindi Atlantica) e classe politica occultamente in parte al Governo (non Atlantica e legata a mondi avversi) erano geograficamente evidenti, per tutta una serie di situazioni storiche che hanno visto l’intelligence italiana sistematicamente bersagliata, anche per motivi strutturali, dalla gran parte della classe politica e della pubblica opinione. Senza particolari differenze, peraltro, tra la pubblica opinione «governativa» e l’opinione pubblica «dell’opposizione».
Quando nel 2007 arriva la riforma dei Servizi Segreti italiani, questa ha soprattutto una ratio politica. Ma quanto è fondata questa ratio politica attualmente? Il primo elemento del fondamento politico della Legge del 2007 riguarda la fine del mondo bipolare: già in fase di dibattimento della riforma, una parte di studiosi e di esperti di intelligence sosteneva che era in atto la fine della possibilità concreta di un’invasione dall’Est e di una risposta convenzionale da parte di altre forze.
Il Patto di Varsavia era capace di infliggere danni gravi all’Alleanza Atlantica, ma mai sarebbe riuscito a conquistare la grande pianura europea, come la chiamava Raymond Aron. Tuttavia questo non deve essere la priorità dell’intelligence, che si occupa soprattutto del rapporto machiavelliano tra mezzi e fini, mentre gli Stati Maggiori lavorano sul contrasto visibile e militare. Questo equilibrio atipico non ha innescato una pacificazione tra i due mondi, ma ha moltiplicato la concorrenza globale e strategica tra le varie aree.
In una prima fase, dopo la caduta ufficiale dell’URSS, con l’accordo di Belaveza dell’8 dicembre 1991, ci fu una vera e propria colonizzazione americana, in pieno far west, delle spoglie dell’Unione Sovietica. Werner Sombart nel 1906 nel suo libro Perché non esiste il Socialismo negli Stati Uniti? si interrogava sulle potenzialità del socialismo nel mondo, e in particolare, sulla “anomalia americana”. Una questione che aveva incuriosito Sombart, reduce nel 1905 da un viaggio negli Stati Uniti, a cui rispondeva parlando anche di “frontiera aperta”, che con la sua possibilità di raggiungere terre ricche servì da valvola di sfogo per gli scontenti. Il socialismo fallito della Russia diviene quindi terreno fertile da conquistare. Poi, in breve tempo, questo meccanismo si ruppe. La formazione della Federazione russa ha fatto comprendere quanto lo “Stato profondo” di Mosca non abbia mai accettato la sua sconfitta geopolitica, ritenendola ingiusta. Non era poi così reale il crollo sostanziale del bipolarismo sostenuto da chi vuole dominare l’Eurasia. Un contrasto che è scritto nella realtà dei fatti e non solo nella Storia dei nostri sistemi politici.
Chi ha pensato la riforma del 2007, almeno sul piano politico, ha focalizzato una “minaccia numero uno” che era, genericamente, il terrorismo islamico. Un assunto che sollevava già allora qualche dubbio, divenuto in seguito alquanto evidente. Ovvero, che il jihad della spada e il jihad della parola sono due cose che, come direbbero i giuristi, integrano la fattispecie del terrorismo, come tutti i paesi europei hanno visto e patito gravemente.
Il terrorismo, prassi politica che nasce in Russia prima della rivoluzione bolscevica, è però solamente una delle tante tecniche di una guerra irregolare di contrasto, penetrazione e destabilizzazione dei nostri sistemi economici e politici. Il terrore è una delle molteplici forme di strategia indiretta messa in atto nell’universo politico, attraverso il jihad della spada, contro i crociati e i sionisti (gli ebrei tutti e noi occidentali, secondo la formula di Bin Laden). In un’intervista su un quotidiano degli Emirati di qualche anno fa, un personaggio molto vicino all’Emiro del Qatar diceva che l’investimento nell’universo occidentale è una forma di guerra contro “gli infedeli”. Quindi, non soltanto il terrorismo come quello che abbiamo tragicamente vissuto in tutta Europa e negli Stati Uniti, ma anche guerra economica, con l’acquisto, per esempio, di alcuni settori rispetto ad altri, oltre a tutta una serie di tecniche di diffamazione e manomissione delle fonti. Il terrorismo, nel senso del camionista che va sulla Promenade Des Anglais di Nizza e uccide molte persone durante la festa del 14 luglio, è certamente un problema gravissimo; ma è il «visibile», il decimo di un iceberg che ha particolarità molto più complesse. L’intelligence dovrebbe vedere molto dell’invisibile.
Per quanto riguarda la cybersecurity, la normativa e le successive integrazioni della legge del 2007 aprono spazi legali e tecnici che permettono l’espansione e la valutazione appropriata di questo tipo di pratiche di contrasto. La parte dell’intelligence riguardante le tecniche meno ortodosse (non nel senso della prassi, ma dell’analisi) come appunto la cybersecurity e l’invasività di eventuali operazioni di penetrazione cyber dell’avversario, sono astrattamente scritte senza essere normate in maniera esplicita e potente, in modo tale da permettere ai tecnici, agli operatori sul terreno e agli analisti di fare davvero una vera azione di difesa. In generale però, a parte il barocchismo molto pericoloso sulle operazioni consentite anche in deroga alle norme (norma che ha permesso ai magistrati milanesi di opporsi ripetutamente al direttore del SISMI per il caso Abu Omar), la normativa del 2007 contiene tutta una serie di elementi più di difesa che di attacco, appesantiti da procedure complicate e post factum. In questo contesto, nessuno farà mai niente, per paura del solito giudice.
Esiste un altro elemento di parziale arretratezza di questa normativa. Siamo un paese tra i più internazionalizzati economicamente, abbiamo a che fare con un sistema economico e finanziario globale, eppure non possediamo l’École de Guerre Économique , una scuola di guerra economica come quella francese che sia vicina alle imprese primarie. Anche in Germania è stata costruita tutta una rete di stiftung, ossia di fondazioni di alto livello legate anche al mondo politico (Ebert, Bertelsmann, Bosch, Krupp, Von Humboldt ecc.). La normativa del 2007 non è stata pensata per questo tipo di “nuove” operazioni, che probabilmente occuperanno gran parte dell’intelligence del futuro. In Francia, per esempio, stanno lavorando sull’intelligence culturale, ossia all’analisi di tratti culturali adattati, trasmessi o difesi che hanno indiscutibilmente rilevanti per l’intelligence.
I conflitti non muoiono, si trasformano o migrano. La teoria politica sottostante alla legge del 2007 è l’embrassons-nous tra vecchia maggioranza e vecchia opposizione. È una riforma che va letta all’interno del sistema politico italiano, non all’esterno. Esiste una pluralità di riferimenti e doveri politici in capo al sistema intelligence. La riforma del 2007 dei Servizi Segreti italiani, ricordiamolo, è intervenuta ben trent’anni dopo l’ultima riforma del settore. È venuto meno un sistema complesso di rapporti tra l’intelligence e la classe politica, le strutture della sicurezza interna e la diplomazia. Pensare che l’intelligence sia da coprire di norme, come se fosse un plesso scolastico, è follia.
Churchill lo aveva già preannunciato alla Conferenza di Casablanca del 14 gennaio 1943, “l’Italia avrà tutto, meno che l’autonomia in politica estera”.
Nel lasso di tempo che va dalla Riforma del 1977 a quella del 2007 sono avvenuti due grandi eventi che hanno causato una rottura con l’ordine mondiale precedente. La prima trasformazione del quadro è legata alla caduta del Muro di Berlino nel 1989 e alla progressiva mutazione verso un mondo multipolare – o anche apolare, come viene talvolta definito. Il bipolarismo degli Usa è fin dall’inizio estraneo alla UE e ai suoi interessi strategici. Washington si prende l’Islam “radicale” balcanico e si muove verso la Turchia in funzione antirussa. Dopo la fine dell’URSS e del patto di Varsavia, non vi sarà, come alla fine delle due guerre mondiali, un ridisegno geopolitico globale e la definizione delle zone di influenza tra le nuove potenze emerse. Tra cui alcune non-statuali: il jihad della spada, i movimenti “colorati” della democrazia in Asia Centrale e ai bordi della vecchia URSS. E della Cina. Vi sarà solo il Far West strategico, che comunque non è ancora cessato. Il secondo evento determinante è quello relativo all’attacco alle Torri Gemelle, a seguito del quale venne fuori, per la prima volta nella Storia, l’aspetto globalmente violento del terrorismo jihadista. Il jihad diviene quindi strumento polivalente, adatto alle necessità di questa o quella potenza, senza poi nemmeno escludere rapporti, tramite la Fratellanza Musulmana, con Paesi dell’Occidente.
L’Occidente, peraltro, si era già cimentato con forme di terrorismo nazionale; l’Italia in particolare ha dovuto affrontare due sfide straordinarie, quella del terrorismo interno delle Brigate Rosse e quella dello stragismo mafioso. Entrambe queste sfide furono vinte grazie alla capacità di prevenzione e repressione che si sono sviluppati, nel tempo, nel nostro Paese. Nel momento in cui si è arrivati alla seconda riforma del settore dell’intelligence, quindi, lo si è fatto, forti di un background investigativo molto ben strutturato. La riforma del 2007 nasceva per una ragione: mettere in campo la più forte capacità di coordinamento possibile tra le strutture di intelligence. E superare quindi la logica della guerra fredda. Primo errore: la guerra fredda non è cessata, si è solo trasformata.
Prima della legge 124/2007 le due capacità operative nazionali dell’intelligence erano profondamente separate. La situazione interna, frutto di una destabilizzazione costante, era cosa ben diversa dagli equilibri esterni. Da una parte c’era il Sisde, servizio civile che dipendeva gerarchicamente e funzionalmente dal Ministero dell’Interno; dall’altra c’era allora il Sismi, un servizio militare esterno che dipendeva gerarchicamente e funzionalmente dal Ministero della Difesa. Il luogo di coordinamento, che all’epoca si chiamava Cesis, era di scarso peso operativo ma di rilievo analitico.
Nel 2007 il problema della legislazione diviene quello di ricondurre l’intelligence sotto le spire di una classe politica apparentemente unificata, almeno dopo “Mani Pulite”. Era stata unificata proprio perché aveva fallito, in tutte le sue frazioni. Nella nuova norma l’intelligence, quindi, dipende integralmente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Non più il frazionismo infra-partitico della vecchia “Prima Repubblica” ma un’evidente necessità di individuare forme – non semplici – di coordinamento, ovvero di controllo politico unificato, che non si basassero solo su capacità individuali, ma su procedure ben definite. Controllabili, definite, aperte a tutte le frazioni della classe politica. Si decise, allora, di procedere verso un ente di forte coordinamento, il DIS, Dipartimento Informazioni per la Sicurezza, che tenesse in campo e in azione due agenzie i cui poteri fossero ben delimitati: l’Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna) per il controllo delle attività di intelligence sul territorio nazionale e l’Aise (Agenzia informazioni e sicurezza esterna) per le attività, appunto, esterne. Il risultato, oggi, è che le due Agenzie si sono tenute ben strette le loro specificità operative e informative.
Da questo punto di vista, la riforma del 2007 è del tutto fallita. Esterno e Interno non sono due separazioni razionali. Le minacce attuali sono globali, sia per la loro pervasività che per i loro effetti. Una separazione tra esterno e interno è soltanto un vecchio pregiudizio burocratico. Burocratismo che rischia di trasformare il Servizio interno in una Questura di provincia e quello esterno in un Centro Studi. L’ideale sarebbe avere una grande Agenzia di Intelligence unitaria, tuttavia sarebbe un pugno in un occhio per una classe politica debole, ricattabile, paurosa per i suoi affari e affarucci e per le sue relazioni (talvolta pericolose) con organizzazioni interne o esterne non del tutto commendevoli. Una classe politica stabile ed efficace oppure una intelligence funzionante, questo sembra essere il dilemma attuale dell’Occidente.
Il principio della Legge 2007 n. 124 sembra quindi essere stato quello di mantenere due agenzie, con finalità e missioni separate e rigidamente circoscritte, che costituisse l’elemento migliore per creare un ambiente di cooperazione positiva. È avvenuto, come si poteva ben immaginare fin dall’inizio, l’esatto contrario. Come faceva il DIS a costringere le due Agenzie a trasformarsi? Il DIS è oggi, quindi, una istituzione quasi obsoleta dopo il meritorio tentativo, compiuto da Giampiero Massolo, di renderlo davvero un sistema unico di riferimento per tutta l’intelligence nazionale.
Una prima scelta di fondo operata da questa legge è stata, inoltre, di perpetuare il processo di accentramento del potere di indirizzo avviato dalla legge del 1977. Ma, dunque, come si coordinano il COPASIR, il Primo Ministro, e il resto del sistema? Il tutto rimane sul piano della Direzione e del coordinamento, molto vago e potenzialmente policratico: il DIS esercita il controllo sull’Aise e sull’Aisi, verificando la conformità delle attività di informazione per la sicurezza alle leggi e ai regolamenti, nonché alle direttive e alle disposizioni del Presidente del Consiglio dei ministri. Bene, il controllo normativo è quindi solo del DIS o anche della Presidenza del Consiglio? E il COPASIR opera un controllo di legittimità o di tipo funzionale, in rapporto agli obiettivi predisposti per ogni operazione? Ed è poi razionale che il Servizio passi ben tre controlli di legittimità, come se fosse una gita di tifosi con il DASPO? Per lo svolgimento di questa forma di controllo opera peraltro un apposito ufficio ispettivo, tra i cui poteri rientra quello di svolgere operazioni ispettive ex-post su richiesta del direttore generale del DIS e previa autorizzazione del Primo Ministro.
Come si tutela realmente il segreto? Dove è il rapporto tra segreto istituzionale e quello operativo? C’è modo di separarli? Un pericoloso barocchismo giuridico tiene quindi sulla corda chi compie le operazioni e, questo, naturalmente, non è affatto un bene. La soluzione più comune sarà quella di non fare niente di pericoloso, anche se è ordinato dal Direttore del DIS o delle Agenzie. E il Primo Ministro? Che fa? Se egli diverge dal Direttore del DIS, crea un disastro istituzionale, se non lo fa può sempre dire che era colpa del Dipartimento, lavandosene le mani.
Ricordiamoci che l’intelligence è sempre una prassi che crea una norma. Non scritta, ma sempre di norma si tratta. Pensare che le operazioni di intelligence siano del tutto normabili è una utopia e, forse, una follia.
Pubblichiamo l’ultimo testo di Marco Giaconi sulla Intelligence Economica per le scorse edizioni del Master IASSP.
Marco Giaconi, già Direttore scientifico CEMISS e Responsabile del Dipartimento di Intelligence Economica IASSP
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