24
Jun
Gli scritti di Qiao Liang sono abitualmente considerati spunti molto apprezzati nella loro lettura perché non convenzionali nell’ottica dell’analisi che origina dal pensiero occidentale. E’ quindi di alto interesse analizzarli e commentarli in un’epoca nella quale appare difficile il formarsi di un’analisi utile in tempi di alta crisi e del sovrapporsi di eventi che modificano assetti ed equilibri rispetto al pensiero convenzionale.
Premetto che non intendo valutarne i contenuti e le opinioni specifiche, quanto utilizzare alcuni degli schemi suggeriti per una lettura della situazione attuale. D’altro canto, il testo L’arco dell’impero, di Qiao Liang, è stato pubblicato nel 2016 e, nella sua traduzione italiana del 2021, è accompagnato da un saggio di Fabio Mini che correda il testo con una lettura “europea” nell’ambito militare. Questo mio breve commento espone alcune riflessioni che avvicinano il lettore verso un’interpretazione nel 2022 dello scenario economico-finanziario.
La prima ipotesi, provocatoria, propone l’idea che sia in corso una nuova rivoluzione del potere economico con la creazione di un nuovo impero il cui arco è molto ampio sia per le dimensioni del Paese che intende governarlo (la Cina) sia per l’estensione che intende raggiungere con la propria azione. E’ accaduto in passato con le diverse esperienze dei tempi antichi (Assiro-Babilonesi, Greci e Romani) del primo Millennio (Carlo Magno) e della seconda parte del secondo Millennio (Paesi Bassi, Spagna, Francia e Gran Bretagna. Nel secolo precedente, Stati Uniti ed Europa (dopo la II Guerra Mondiale) hanno ripercorso il medesimo cammino di ricerca del dominio con la rilevante innovazione di non aver impostato un percorso bellico tradizionale, quanto un costante utilizzo delle variabili dell’economia e, più recentemente, della finanza.
Secondo taluni (Liang compreso), anche questo modello ha una sua logica bellica, per quanto con armi differenti. Anche il percorso intrapreso dalla China dopo il 1999 appare ispirato al medesimo modello: conquistare il governo del “mondo” attraverso il controllo della produzione dei beni più necessari, la gestione delle risorse naturali e la destinazione finalizzata delle risorse finanziarie.
Al momento attuale la China è certamente attiva nelle prime due azioni, mentre – al contrario degli Stati Uniti in precedenza – la governance delle risorse finanziarie appare ancora debole.
Un’altra importante differenza concerne la evidente governance congiunta della politica e della finanza nel modello cinese quando, invece, gli Stati Uniti hanno mantenuto formalmente una separazione netta fra l’azione politica e quella finanziaria (inizialmente “bancaria”). Resta infatti un’ampia indipendenza in una logica di collaborazione (independent within the government). Taluni passi del testo lasciano intravedere invece una frequente connivenza fra politica e finanza, in luogo di una logica alleanza per rafforzare la ricerca del “controllo del mondo”
Tornando alla situazione attuale, le banche cinesi sono di grandi dimensioni (5 fra le prime 10 del mondo), ma mantengono una logica nazionale, sono fortemente condizionate dalla guida politica nazionale e non hanno conquistato spazi adeguati nei Paesi dove invece l’attività economica di origine cinese ha conquistato importanti basi di presenza o di controllo.
Avendo occasioni di interloquire con tre di esse (Bank of China, Industrial&Commercial Bank of China e Agricoltural Bank of China), si evidenzia una visione strategica ancora China-Oriented, una bassa incidenza nelle piazze estere ed una certa carenza nella penetrazione della loro azione al di fuori del proprio territorio. Nel complesso, la loro organizzazione appare ancora non ben disegnata per poter esercitare un potere effettivo al di fuori della China. Con una forzatura letteraria, potrei dire che sono “grosse” ma non ancora “grandi”, nonché interessate a favorire la posizione delle aziende cinesi negli altri Paesi, piuttosto che a finanziare e condizionare le aziende dei Paesi dove sono presenti, se non attraverso la crescente presenza di prodotti e di servizi proposti da aziende cinesi.
E’ interessante notare anche che un oggetto di attenzione della finanza cinese sia l’Europa, evidentemente letta come un’area interessante sotto il profilo geo-politico-economico, ma fragile sotto il profilo finanziario. L’area UE in particolare è caratterizzata da un’eccellente ed unica distribuzione del reddito pro-capite, fattore che determina l’attrazione verso il relativo mercato. Inoltre, al suo interno appare al momento elemento di debolezza la asimmetria fra la crescente Unione Bancaria e la debole armonizzazione a livello politico ed industriale. In aggiunta, il sistema bancario, nonostante un disegno normativo più coeso, non rappresenta un universo di dimensioni adeguate rispetto allo scenario mondiale. Infine, l’Unione Bancaria è fondata su regole e controlli comuni, mentre è singolare come continuino ad essere assenti operazioni di aggregazione (M&A) transnazionali. Ogni istituzione si muove accrescendo la propria forza in prevalenza mantenendo radici nei Paesi di origine (con la eccezione della HSBC britannica, in linea con il tradizionale approccio di quel Paese).
L’Europa è pertanto un soggetto passivo di altissimo interesse (per consumi, cultura e comportamenti delle persone) ma un soggetto debole sotto il profilo attivo (carente nell’innovazione tecnologica, privo di soggetti industriali dominanti nei “nuovi” settori e con una leadership politica debole sotto il profilo del carisma e, di fatto, spesso divisa nell’assunzione delle scelte più necessarie. In definitiva, utilizzando una tradizionale espressione riferita alla Grecia, potremmo parlare di “Parva Europa” rispetto alla prospettiva di una Magna China.
Il rischio è quello di subire una colonizzazione finanziaria, un’esperienza nella quale la China ha già dimostrato buone capacità d’azione in Africa, laddove le risorse finanziarie disponibili appaiono in grado di incidere sulle realtà locali, il fattore che – come anzidetto – appare ancora non efficace per “conquistare” l’area Europea. Se è plausibile ipotizzare che il continente africano possa rappresentare l’area con il maggior potenziale di sviluppo nella seconda parte del secolo, la scelta cinese appare strategicamente corretta e sembra raccogliere – con le dovute cautele per tali affermazioni – accoglienza e non dissenso in alcune realtà locali. Il renmimbi circola in alcune realtà africane, soprattutto laddove le valute di quel Paese hanno valore compromesso dalla debolezza dell’economia e della struttura finanziaria. L’esempio già operativo è quello dello Zimbabwe ove la moneta locale (il dollaro zimbabwiano – DZ) è stato eliminato dalla circolazione dopo aver subito il trauma economico della stampa di una banconota da un miliardo di DZ dal potere d’acquisto quasi nullo. Per mero confronto, ricordo l’esperienza italiana del 1944 quando furono coniate le am-lire durante l’occupazione americana nella parte meridionale del Paese, e quella francese nel 1958-60, quando in piena autonomia si determinò la creazione del “franco pesante”, peraltro limitato ad una riduzione per “sole” 100 unità.
Dobbiamo obiettivamente sottolineare (come propone il testo di Qiao Liang) che il modello americano propone(va) ancora una connessione fra l’offerta di moneta americana e quella di materie prime, semilavorati e lavoro messe a disposizione dai Paesi beneficiari attraverso modelli che non prevedono il credito quanto la sovvenzione condizionata allo scambio. Restiamo quindi nell’ambito del colonialismo finanziario, la scelta che appare caratterizzare anche l’espansione politico-economica cinese, attualmente più attraente in numerose aree geografiche. Gli Stati Uniti hanno accantonato negli ultimi anni l’azione militare (rivelatasi quasi sempre perdente), mentre la China, salvo alcuni episodi nei Paesi limitrofi (Tibet, Macao, Timor Est, HongKong e – diversamente – Taiwan) non hanno mai progettato iniziative militari. Un comportamento opposto a quello attuato (con grandi difficoltà) dalla Russia, condizionata da gravi problemi finanziari interni e da un’offerta tecnologica ed industriale obiettivamente più debole. Tema molto attuale, ma escluso in questa nota.
La consuetudine dell’analisi dell’economista contesta l’idea che l’arma finanziaria sia definibile come un’azione bellica; molti altri analisti invece propongono una lettura opposta. Non intendo approfondire questa differente lettura, considerando peraltro che la disponibilità di risorse finanziaria rappresenta un vincolo ineliminabile per consentire lo sviluppo economico. Possiamo considerarla un’arma bianca che condiziona i popoli consentendone una sopravvivenza difficile ed una sottoposizione che si prolunga nel tempo. Alcuni modelli di finanza etica (pensiamo alle iniziative di Muhammud Yunus) propongono un modello differente (il microcredito), certamente di successo ma con proporzioni non incidenti sulla dinamica dei flussi internazionali dei capitali (miliardi e non triliardi).
Per ulteriore completezza ricordo invece come, nell’Europa Orientale, dopo il 1989, l’attività bancaria sia stata sviluppata in prevalenza da alcune banche occidentali che di fatto controllano i sistemi nazionali locali, peraltro con conseguenze spesso negative per i loro bilanci di gruppo a causa dell’elevato rischio di credito. Nessuna banca locale ha saputo conquistare quote di mercato significative ed anche questo costituisce un condizionamento di lungo periodo per un efficace sviluppo economico. Laddove talune banche occidentali hanno scelto di abbandonare alcuni territori, ciò ha influito sulla linearità del processo di crescita rendendo necessario l’intervento di istituzioni quali il Fondo Monetario Internazionale, mentre le Banche di Sviluppo, attive negli anni ’60 e ’70, hanno progressivamente perso posizioni e visibilità.
Resta da considerare la difficile ipotesi di riscrivere un accordo quale quello di Bretton Woods nel 1944, il volano determinante per lo sviluppo post-bellico dell’epoca. D’altro canto, quella scelta si basava sulla incomparabile forza del dollaro, sulla volontà, oggi palesemente assente, di una reale collaborazione internazionale e sul riconoscimento della debolezza strutturale dei Paesi che accettarono all’epoca il dollar standard e, cioè, il predominio monetario di quella valuta ancorata all’oro.
Nella ideale “foresta” (Woods) dove potrebbe avere luogo la ricerca di un nuovo accordo, parteciperebbero numerosi Paesi (e non uno solo) in grado di creare con continuità enormi flussi finanziari, altrettanti la cui forza paradossale risiede nella dimensione del proprio debito esterno ed altri dotati di risorse naturali, soft e hard commodities e componenti della produzione non in grado di indebitarsi né tanto meno di gestire in autonomia i flussi finanziari generati dai fattori sopra citati.
Questa situazione genera di fatto uno stallo, che allunga i tempi di soluzioni, reclama compromessi che conducono a soluzioni sub-ottimali e, condizione peggiore, induce a cercare da parte di taluno soluzioni di forza. L’economia e la finanza, per loro stessa natura, inducono invece alla ricerca di soluzioni win-win. Ricordiamo infatti che la maggior parte delle ultime riunioni dei G7-10-20 negli ultimi anni si è conclusa con il rinvio delle principali decisioni. Tutti propongono soluzioni utili a cambiare il mondo, ma nessuno è disponibile a cambiare sé stesso. Lo disse Tolstoi; conosceva bene la politica, ma non ebbe mai – come è noto – modo di esercitarne le funzioni…
Giuseppe G. Santorsola, docente IASSP e Professore Ordinario di Asset Management, Corporate Finance e Corporate & Investment Banking Università Parthenope – Napoli
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03Oct
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